Un albero, fiore, pianta per...

artemisia; assenzio

Dal culto terapeutico alla damnatio politica e alla rinascita culturale: l’assenzio a base di Artemisia tra medicina antica, arte e lobby industriali.
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L’Artemisia absinthium, pianta perenne dai toni amari e aromatici, ha radici antiche nella storia della medicina. Già nel V secolo a.C., Ippocrate, padre della medicina occidentale, la consigliava contro dolori mestruali, ittero, anemia e reumatismi. Utilizzata anche per facilitare il parto, l’Artemisia era preparata in infusi con vino o alcol, in un precursore dell’assenzio moderno.
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Nel XIX secolo, l’assenzio si diffuse come bevanda alcolica iconica, simbolo della bohème parigina. Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Baudelaire ne furono estimatori: la “Fata Verde” divenne musa e vizio, tra visioni e creatività. Ma la sua ascesa avvenne in un contesto critico per l’industria vinicola francese, colpita dalla fillossera. Le lobby del vino promossero una campagna di demonizzazione contro l’assenzio, indicandolo come causa di follia e decadenza morale. La tujone, molecola contenuta nell’Artemisia, fu accusata (senza solide basi scientifiche) di indurre allucinazioni e comportamenti criminali. L’assenzio venne vietato in Francia nel 1915, seguito da altri Paesi.
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Solo alla fine del Novecento, con nuove ricerche scientifiche, si scoprì che le dosi di tujone nei prodotti tradizionali erano ben sotto i limiti tossici. La normativa europea ha così consentito la sua regolamentazione e il ritorno legale dell’assenzio, oggi apprezzato come distillato artigianale e simbolo di cultura alternativa.
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L’Artemisia absinthium, da rimedio ippocratico a icona maledetta e infine a protagonista di una rinascita consapevole, incarna il potere rigenerativo della natura e la ciclicità dei simboli culturali. Una pianta per… ritrovare equilibrio tra scienza, tradizione e libertà espressiva.
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AnneClaire Budin

Icona tragica e misteriosa, Elizabeth Short è al centro di libri, film e teorie. La Dalia Nera resta uno dei casi più oscuri del Novecento americano.
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Hollywood, 1947. Il sogno americano ha il volto giovane di Elizabeth Short, una ragazza di 22 anni giunta in California per cercare fortuna nel cinema. Il suo nome è legato a uno dei misteri più inquietanti del Novecento: quello della “Dalia Nera”.
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Nata a Boston nel 1924, cresciuta tra il Massachusetts e la Florida, Elizabeth visse un’adolescenza difficile. A diciannove anni si trasferì a Los Angeles, attratta dalla promessa della fama. Lavori saltuari, vestiti neri, un’aura enigmatica: fu proprio la stampa a ribattezzarla “Dalia Nera”, ispirandosi al film noir La dalia azzurra (1946).

Il 15 gennaio 1947, il suo corpo venne ritrovato a Leimert Park, diviso in due, mutilato e completamente dissanguato. Un crimine efferato che mobilitò l’intera città e ispirò decine di romanzi, saggi e film. Nessuno fu mai condannato. Nel tempo si sono susseguite teorie: l’ex chirurgo George Hodel, l’editore Norman Chandler, persino il regista Orson Welles. Ma nessuna pista ha trovato conferma.

Il caso ha affascinato scrittori come James Ellroy, che nel suo romanzo The Black Dahlia (1987) ha immaginato una soluzione letteraria al mistero, dando vita a una Los Angeles cupa e ambigua. Dal libro è stato tratto l’omonimo film diretto da Brian De Palma (2006), con Scarlett Johansson e Josh Hartnett. Il figlio del sospettato Hodel, Steve, ha scritto vari libri, tra cui Black Dahlia Avenger (2003), convinto che suo padre fosse l'assassino. Altri titoli, come Severed di John Gilmore o Daddy Was the Black Dahlia Killer di Janice Knowlton, intrecciano cronaca e memoria personale.
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Elizabeth Short riposa al Mountain View Cemetery di Oakland, in California, lo Stato che amava. La dalia nera non esiste in natura: è una cultivar scura, intensa, simbolo di mistero e malinconia. Un fiore per Elizabeth è un tributo alla sua memoria e a tutte le donne fragili, libere e spezzate da una società che ancora fatica ad ascoltarle.

AnneClaire Budin

il mughetto

In Francia è simbolo di buona fortuna e lotta sociale, omaggio floreale irrinunciabile che attraversa secoli di storia tra sacro, profano e rivoluzione.
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Nel cuore verde della tradizione francese, il mughetto fiorisce ogni Primo Maggio come messaggero silenzioso di buona sorte e memoria collettiva. Regalare un mazzolino di questi delicati fiori bianchi non è soltanto un gesto di gentilezza, ma un rito radicato che affonda le radici nel XVI secolo, quando Carlo IX decise di rendere annuale il dono ricevuto durante una visita la provincia del Delfinato. Da allora, la consuetudine di offrire mughetti il Primo Maggio si è consolidata nel tempo, sopravvivendo ai mutamenti politici e culturali della Francia, trasformandosi in simbolo mutevole a seconda delle epoche: emblema regale, poi segno poetico e infine vessillo operaio.
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Nel medioevo il mughetto, conosciuto come "lis de la vallée", veniva identificato nei testi sacri grazie a una traduzione latina del Cantico dei Cantici, che lo descriveva come "lilium convallium", ossia "giglio della valle". Il profumo intenso lo rese popolare nelle corti del XV secolo, tanto che il verbo "mugueter" significava “corteggiare”. Tuttavia, la Rivoluzione Francese segnò una pausa: il mughetto, associato all’aristocrazia e ai muscadins – i giovani realisti armati –, cadde in disgrazia. Solo nel Novecento, e grazie anche all’eco delle lotte operaie, tornò protagonista.
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Il Primo Maggio, nato come giornata di rivendicazioni sociali dopo le proteste di Chicago e la strage di Fourmies del 1891, adottò inizialmente una rosa canina come simbolo della memoria di Maria Blondeau, giovane uccisa con in mano quel fiore. Ma il mughetto seppe imporsi nuovamente, complice anche la stampa socialista parigina e, durante il regime di Vichy, l’imposizione del maresciallo Pétain che ne fece l’unico fiore indossabile nella festa dei lavoratori. Così, il mughetto – una pianta semplice ma potente, dalla fragranza inconfondibile – diventò sinonimo di lotta, rinascita e speranza.

Oggi, tra le strade di Parigi e le campagne francesi, i mazzolini di mughetto venduti senza licenza rappresentano non solo una tradizione viva e partecipata, ma anche una piccola forma di economia popolare. Un fiore biblico e regale che, nel corso del tempo, ha saputo adattarsi alle mutevoli esigenze della società, diventando un emblema poetico e politico insieme. Per il mondo florovivaistico, il mughetto del Primo Maggio è un caso esemplare di come cultura, simbologia e mercato possano intrecciarsi intorno a una pianta che, pur nella sua apparente fragilità, conserva una forza dirompente.

AnneClaire Budin

I gatti, curiosi e indipendenti, adorano esplorare orti e giardini. Ma alcune piante, come la verbena citronella (Aloysia citriodora), li scoraggiano con profumi per loro insopportabili.
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Chi ha un giardino, un orto o anche solo qualche vaso sul balcone sa bene quanto i gatti possano diventare ospiti frequenti, a volte indesiderati. Nonostante la loro grazia, questi felini possono rovinare aiuole, scavare nei vasi o semplicemente infastidire con la loro presenza laddove si vorrebbe ordine e tranquillità vegetale. Senza voler fare loro del male, è possibile adottare strategie naturali ed efficaci per tenerli lontani. Tra queste, l’uso mirato di alcune piante dal profumo repellente per i gatti si rivela sorprendentemente utile. Ecco quindi alcune piante che allontanano i gatti.
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Una delle soluzioni più eleganti e sostenibili per proteggere l'orto da gatti è la verbena citronella (Aloysia citriodora). Pianta aromatica originaria del Sud America, questa perenne erbacea è nota per il suo intenso profumo di limone, una fragranza che noi troviamo gradevole ma che per i gatti risulta assolutamente sgradita. Il suo effetto repellente è dovuto proprio agli oli essenziali che emana, in particolare il citrale, capace di infastidire l’olfatto felino a tal punto da spingerli ad allontanarsi. 
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Non meno efficaci sono la ruta officinalis, dai piccoli fiori gialli e foglie di un verde-azzurro, e la fraxinella (Dictamnus albus), chiamata anche buisson ardent, che emana un profumo dolce-agrumato molto potente. Anche gérani profumati, aubépine (biancospino) e alcune piante spinose possono contribuire a delimitare lo spazio in modo naturale. È però essenziale evitare eccessi nell’uso di piante pungenti, per non arrecare danno ai gatti: l’obiettivo resta sempre quello di dissuadere, non di ferire.
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Un altro trucco è sfruttare l’umidità, poco amata dai gatti. Tenere il terreno leggermente bagnato o cospargerlo con fondi di caffè, zest di agrumi o pepe nero può aumentare l’efficacia del “campo minato” olfattivo. Anche all’interno della casa, dove le piante d’appartamento rischiano di essere prese di mira, questi accorgimenti si dimostrano validi.

L’efficacia di queste piante non si limita all’azione antifelina. Molte di esse sono utili anche come repellenti contro insetti, aromatiche da cucina o semplicemente per l’estetica che apportano al giardino. La verveina citronella, ad esempio, può essere impiegata in infusi digestivi e rilassanti, mentre la ruta ha proprietà officinali note sin dall’antichità.

Occorre però porre attenzione a dove e come vengono piantate: alcune di queste specie, come la ruta, possono risultare tossiche se ingerite in grandi quantità da animali domestici. È dunque sempre consigliabile informarsi bene e, in caso di dubbio, consultare un esperto di botanica o un veterinario.

Infine, è fondamentale ribadire che ogni intervento nel verde dovrebbe sempre perseguire l’armonia tra natura e animale. I gatti non sono nemici ma coinquilini del nostro ambiente urbano e rurale, ed è giusto cercare soluzioni che tutelino entrambi. Coltivare piante anti-gatto come la verveina citronella permette proprio questo: preservare la bellezza e la funzionalità del nostro verde domestico, nel rispetto degli equilibri naturali.

Una pianta, quindi, può diventare alleata silenziosa ma potente nel delicato compito di mantenere ordine e serenità nei nostri spazi verdi.

AnneClaire Budin

Nel cuore dei Giardini Vaticani cresce un leccio, piantato in nome della custodia del creato. Oggi lo ricordiamo come simbolo della visione verde e spirituale di Papa Francesco.

Alla notizia della scomparsa di Papa Francesco, la redazione di Floraviva ha scelto di onorare la sua memoria attraverso la rubrica Un albero per..., dedicandogli il leccio (Quercus ilex), pianta autoctona del Mediterraneo e testimone silenzioso della sua enciclica Laudato si’, manifesto di un’ecologia integrale che unisce natura, giustizia e spiritualità.

Fu proprio questo albero, resistente e sempreverde, a essere piantato nei Giardini Vaticani durante il Sinodo per l’Amazzonia. Un gesto carico di significato, che ribadiva la necessità di una “conversione ecologica” globale e concreta. Il leccio, con la sua lunga vita e capacità di adattarsi a suoli poveri e condizioni estreme, diventa così emblema della resilienza, della speranza e della custodia della casa comune.

Papa Francesco ha più volte ricordato come la crisi ambientale sia intimamente legata a quella sociale e spirituale. Il leccio – albero delle nostre campagne, della macchia mediterranea, delle aree collinari e costiere – è stato da lui scelto anche per rappresentare l’impegno verso la Terra, verso le popolazioni indigene e verso le generazioni future. Un albero che richiama l'umiltà francescana, la fermezza nella fede e la connessione profonda con l’ambiente naturale.

Dedicargli oggi un leccio, nella nostra rubrica, significa piantare un seme di memoria viva. Un invito, per chi opera nel florovivaismo, nella gestione del verde e nella cultura del paesaggio, a proseguire sulla via tracciata: quella di un verde che cura, protegge e resiste. Proprio come faceva lui, con il suo sguardo gentile e la forza delle radici.

Andrea Vitali