Arte Verde

Arte Verde: Mohsen Baghernejad Moghanjooghi

Alla ME Vannucci di Pistoia, Mohsen Baghernejad Moghanjooghi indaga il tempo attraverso una “cellula” vitale tra arte, natura e trasformazione.
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Con Cellula, la prima personale di Mohsen Baghernejad Moghanjooghi negli spazi della galleria ME Vannucci di Pistoia (18 maggio – 31 luglio 2025), si apre un varco poetico tra corpo, natura e tempo. L’artista iraniano, classe 1988, vive a Torino ma coltiva quotidianamente un’idea di arte che scorre tra la materia organica e l’esperienza interiore, fatta di piccoli gesti, cambiamenti impercettibili, riti quotidiani.
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Cellula è un’installazione che riflette la trasformazione continua: un ambiente in cui il ritmo si frammenta e si ricompone secondo stimoli, presenze, emozioni. L’opera evoca lo spazio biologico, ma anche esistenziale, in cui l’artista abita e crea. “Mi sto legando lentamente al ritmo della natura e delle stagioni”, scrive, raccontando la nascita del suo progetto agricolo D’io, Bio, che fonde ricerca artistica e coltivazione di funghi. Questo spazio-studio rurale, nato da una residenza in Calabria e ora azienda attiva, è una vera estensione della sua pratica artistica.
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Mohsen arriva in Italia nel 2011, dopo aver lavorato in uno studio di architettura a Teheran. La sua formazione attraversa l’Accademia Albertina di Torino, il design tessile a Como, la materia viva del restauro edile. Tutto questo plasma un linguaggio fatto di materiali semplici, ruvidi, spesso recuperati dal mondo del costruito, ma resi fertili da una dimensione intima, quasi rituale.
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Negli anni ha preso parte a collettive e residenze (Manifattura Tabacchi a Firenze, Una Boccata d’Arte, Voga Art Project a Bari), portando avanti anche l’attività del collettivo Bastione, da lui fondato a Torino. Dopo le prime apparizioni alla ME Vannucci — con un’opera murale ancora visibile e un’installazione immersiva — questa personale segna una maturazione della sua visione: l’arte come organismo vivente, come spazio-tempo alterato in cui riscoprire il senso del gesto e della cura.
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Nel tempo della natura, Cellula si fa metafora e rifugio, ma anche dispositivo per interrogare la nostra capacità di trasformarci, giorno dopo giorno.
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AnneClaire Budin

ROBERTO ORLANDO

All’Orto Botanico di Firenze, dal 14 giugno, Roberto Orlando espone Manuale, un progetto che intreccia arte, botanica e affettività con gesti antichi e sguardi nuovi.
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Dal 14 giugno al 31 agosto 2025, l’Orto Botanico di Firenze – Antico Giardino dei Semplici – ospita Manuale, mostra personale dell’artista palermitano Roberto Orlando. Il progetto, promosso dall’Università degli Studi di Firenze – Sistema Museale di Ateneo e realizzato in collaborazione con la Galleria ME Vannucci di Pistoia, è accompagnato da un testo critico di Mario Bronzino.

Il titolo Manuale richiama la pratica dell’impollinazione manuale: gesto tecnico e delicato, utilizzato da secoli per garantire la fruttificazione di alcune specie in assenza del loro impollinatore naturale. Questo atto diventa per Orlando metafora potente di una relazione affettiva e trasformativa tra essere umano e pianta, dove la mano non è solo strumento di controllo, ma veicolo di desiderio, cura e alterazione reciproca.

Le opere nascono da un’esperienza diretta all’interno dello stesso Orto fiorentino, dove l’artista ha osservato e documentato le fasi di impollinazione su piante di Victoria cruziana, vaniglia (Vanilla planifolia), cacao e Brugmansia. Ne scaturiscono grandi composizioni in cui pittura, fotografia e botanica si intrecciano in un linguaggio visivo essenziale ma intensissimo, in grado di restituire l’intimità di un contatto – fisico, visivo, quasi erotico – con il mondo vegetale. Le mani nere che popolano molte opere, sospese tra presenza e assenza, evocano una distanza e al contempo un desiderio viscerale di vicinanza all’alterità vivente.
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Come osserva Bronzino, Manuale rappresenta «quel contatto metaforico di duplice entità poetica e rischiosa […] attraverso cui ripensare socialmente l’avvicinamento dell’estraneo, la convivenza e la generazione di nuove forme di vita». L’approccio di Orlando coniuga sensibilità artistica e rigore d’osservazione scientifica: ogni opera diventa una lente d’ingrandimento sul vegetale, una sorta di “prontuario visivo” che illustra, più che descrivere, un modo altro di stare al mondo.
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La mostra si inserisce in un percorso di valorizzazione culturale del Giardino dei Semplici, confermando l’Orto come luogo vivo di sperimentazione e dialogo tra scienza e arte. Manuale propone infatti una riflessione radicale sul nostro modo di guardare le piante: non più solo oggetti da classificare o contemplare, ma soggetti con cui condividere gesti, affetti, ecologie.
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In questa prospettiva, anche i precedenti lavori dell’artista offrono una chiave di lettura: disegni come quelli della serie Botanologico edizione vaniglia, ispirati alla pratica dell’impollinazione artificiale della vaniglia, o la fotografia Incontro apicale n°64, che lo ritrae in contatto con una Brugmansia, segnalano un’attenzione costante alla relazione interspecifica intesa come scambio sensibile, ambivalente e carico di storia. Pur non essendo confermata la loro presenza nella mostra fiorentina, questi progetti pregressi rafforzano la coerenza di una ricerca che attraversa tempo, corpo e linguaggio.

Roberto Orlando (Palermo, 1996) si è formato all’Accademia di Belle Arti della sua città, dove ha affiancato alla pittura la curatela indipendente e l’attività collettiva. Cofondatore dello spazio Parentesi Tonde e collaboratore di musei e istituzioni come curatore tecnico e allestitore, Orlando è anche responsabile della sede palermitana della Collezione Elenk’art. Il suo lavoro è stato presentato in mostre personali e collettive in tutta Italia, e nel 2025 ha avviato un progetto di ricerca all’interno della collezione dell’Orto Botanico di Padova.

AnneClaire Budin

 

Lucia oescador

Dal 30 maggio al 15 settembre 2025, a Palazzo Zuckermann di Padova, l’arte botanica di Lucia Pescador protagonista della personale “Botanikum”.
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Una narrazione visiva che attraversa il tempo, la memoria e la natura: è questo il cuore della mostra “Botanikum”, la prima grande personale pubblica dedicata all’artista Lucia Pescador, che dal 30 maggio al 15 settembre 2025 animerà gli spazi di Palazzo Zuckermann a Padova. L’evento, ideato e curato da Claudia Zanfi in collaborazione con il Comune e i Musei Civici di Padova, celebra la lunga carriera dell’artista vogherese e il suo rapporto profondo con il mondo botanico, in una città che vanta una tradizione secolare nella scienza delle piante.
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“Botanikum” è una vera e propria immersione in giardini immaginari e foreste della mente, un viaggio tra oltre 500 opere che includono disegni su carta, acetati, fotografie e collage. Lucia Pescador ha fatto della carta il suo medium prediletto, riutilizzando vecchie lettere, registri, partiture musicali e pagine diari, trasformandoli in supporti per nuovi racconti visivi. Ogni foglio sospeso, leggero e vibrante, diventa così una metafora della foglia, collegando sensibilmente l’etimologia greca alla poesia naturale.
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L’allestimento site-specific per Palazzo Zuckermann amplifica questa suggestione: centinaia di fogli appesi alle pareti con aghi sottili creano un effetto di arcobaleno organico, un bosco effimero dove il visitatore si ritrova avvolto da forme botaniche, reminiscenze di erbari medievali e visioni ispirate ai maestri come Karl Blossfeldt e Filippo De Pisis. Le installazioni non si limitano alla mera rappresentazione: sono racconti di foglie, fiori, funghi, frutti e legni, evocando paesaggi che oscillano tra reale e immaginifico.

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La mostra ripercorre anche i momenti salienti della carriera di Pescador, diplomata in Decorazione all’Accademia di Brera, con un percorso artistico iniziato nel 1965 e segnato da una continua riflessione sulla dialettica tra natura e cultura. Dagli anni Settanta, con il gruppo Metamorfosi, fino ai celebri Inventari del Novecento “con la mano sinistra”, la sua ricerca si è nutrita di una poetica del frammento, di accostamenti simbolici e di una forte componente manuale che sfida la tradizione accademica.
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Dietro la sua passione per la botanica, si cela un desiderio d’infanzia: quello di iscriversi alla Scuola di Agraria, sogno allora precluso alle donne. Questo mancato accesso si è sublimato nella creazione di erbari d’artista, collezioni di elementi naturali tradotti in opere che indagano il rapporto tra memoria, paesaggio e identità. La raccolta di legni, fiori e funghi si è così trasformata in una pratica artistica che unisce scienza e sensibilità estetica.
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“Botanikum” si inserisce in un filone espositivo che guarda con attenzione alla relazione tra arte e ambiente, temi oggi più che mai centrali nel dibattito culturale e sociale. La mostra rappresenta un’occasione unica per scoprire una delle figure più originali del panorama artistico italiano, il cui lavoro coniuga ricerca estetica, memoria storica e consapevolezza ecologic

AnneClaire Budin

Con "Uprooted", l’artista colombiana Doris Salcedo erige una casa di 804 alberi morti: una scultura monumentale, silente testimone del dolore dei migranti e del disastro ecologico.
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Nel cuore della sua opera più recente, "Uprooted", Doris Salcedo compone una casa impossibile. Costruita con 804 alberi morti e travi d’acciaio, misura 6,5 metri d’altezza, 30 di lunghezza, 5 di profondità. Imponente e inabitabile, questa architettura disfunzionale diventa emblema visivo dell'esilio forzato, della disgregazione dell'identità, dell'impermanenza come unica dimora possibile per chi è stato sradicato. L’opera si pone al crocevia tra scultura, land art e installazione memoriale.
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Il materiale stesso—alberi senza vita—parla senza voce. La casa non protegge, non contiene, non abita: rappresenta ciò che rimane quando tutto è perduto. Salcedo conduce una riflessione profonda sulle condizioni dei rifugiati, dei migranti, dei desplazados, persone costrette a muoversi per sopravvivere, ma mai veramente accolte. Secondo l’artista, la causa di questi movimenti coatti risiede in un sistema economico predatorio che distrugge l’ambiente e i legami sociali. Così, "Uprooted" si fa luogo di contraddizione estrema: radicato nel suolo ma essenzialmente privo di radici, resistente e al contempo fragile.
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Salcedo, già nota per opere che indagano la violenza e la memoria, come "Plegaria Muda" e "A Flor de Piel", utilizza la materia viva e morta—terra, petali, mobili, acciaio—per evocare i rituali del lutto negato, la trasformazione del dolore in forma. In "A Flor de Piel" (2012), ad esempio, cuce migliaia di petali di rosa con filo chirurgico, creando un sudario di sangue rappreso in omaggio a un’infermiera vittima di torture. In "Plegaria Muda" (2008–2010), delle tavole rovesciate diventano tombe da cui spunta l’erba: la vita insiste, anche nella morte.
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Il paesaggio in cui agisce Salcedo non è naturale ma sociale. È un terreno di scontro tra la memoria e l’oblio, tra la giustizia e la negazione. Le sue installazioni non sono monumenti ma atti di resistenza poetica: "azioni di lutto" che restituiscono spazio ai morti e visibilità agli assenti. L’arte, nelle sue mani, si fa strumento politico senza retorica, capace di muovere lo spettatore non con la denuncia, ma con l’emozione viscerale della materia che parla.
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La dimensione vegetale è spesso centrale nel suo lavoro: fiori, alberi, erba sono i vettori di una vita che tenta di sopravvivere al trauma. In "Palimpsest", l’acqua disegna nomi dimenticati su lastre di pietra; in "Disremembered", migliaia di aghi trapassano camicie trasparenti, in un dolore tanto silenzioso quanto tangibile. Ogni opera è un rito, ogni installazione un giardino della memoria.
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"Uprooted", in questo contesto, rappresenta l’atto estremo della dissociazione dal mondo, ma anche il seme di una nuova narrazione: la casa degli alberi morti può forse farsi santuario per chi ha perduto tutto, tranne la dignità. Per chi opera nel verde, dai vivaisti ai progettisti del paesaggio, l’opera di Salcedo non è solo testimonianza artistica, ma interrogativo aperto su ciò che accade quando la natura non è più madre ma campo di battaglia. In un mondo in cui il cambiamento climatico e le migrazioni si intrecciano sempre più strettamente, Salcedo ci invita a riconsiderare il nostro rapporto con la materia viva e con chi, come gli alberi, viene strappato dalla propria terra.

Arte Verde è una rubrica curata da Anne Claire Budin

MAXIME ROSSI

Nell'opera di Maxime Rossi -artiste francese nato in 1980- l'ambiente non è solo sfondo ma attore protagonista di un racconto visivo e sensoriale.
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L'installazione "Oeuvre en 3 dimensions" incarna questa poetica, unendo musica, natura e memoria. Quattro cornici con tende velano partiture postume di Chopin, adagiate su un letto di foglie imbevute di colori sgocciolati da pennarelli sospesi agli alberi del Père Lachaise, sopra la tomba del compositore. Durante diverse stagioni, Rossi ha disposto le foglie una dopo l'altra, lasciando che il tempo e l’ambiente incidessero sulla loro trasformazione.
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Questo processo di creazione, in cui l’artista non si limita a produrre un'opera ma lascia che la natura la completi, è un tratto distintivo della sua ricerca. Rossi esplora la permeabilità tra arte e paesaggio, facendo emergere connessioni inaspettate tra il gesto artistico e le forze naturali. Nel caso di "Oeuvre en 3 dimensions", il suono diventa colore, la partitura si dissolve nella materia organica, e la memoria di Chopin si mescola alla caducità delle foglie.Questo lavoro si inserisce in una serie di progetti in cui l’artista utilizza elementi naturali per comporre nuove narrazioni visive. Rossi ha spesso impiegato la pioggia, il vento e le stagioni come strumenti creativi, sottolineando l'importanza dell’imprevedibilità nel fare artistico.
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Il rapporto tra arte e ambiente emerge anche in altre sue opere, dove la dimensione temporale e l’interazione con gli agenti atmosferici diventano parte del processo. L’artista non impone una forma definitiva alla sua creazione, ma ne asseconda la trasformazione, come accade con le foglie tinte dall’inchiostro nell’installazione parigina. Questo approccio suggerisce una visione ecologica dell’arte, in cui la materia e il tempo coesistono in un equilibrio fragile e mutevole.
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 Arte verde è una rubrica curata da Anne Claire Budin