Arte Verde
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- Scritto da Andrea Vitali
“Segui il thread e guarda dove ti porta” questo è il motto su cui l’artista Sheila Hicks scherza. Crea sculture tessili e a 87 anni per il grande pubblico è ancora poco conosciuta. Con Sheila Hicks devi buttarti e non aver paura delle emozioni forti e della stravaganza.
Per anni si è portata dietro piccoli pezzi di tessuto, per lei era come avere un taccuino in tasca che poi ha dato vita ai lavori che traducono “momenti di meditazione” e ore di tranquilla ricerca, con la mente errante, compiuta da Sheila Hicks nel corso del tempo.
Nata nel Nebraska, ha vissuto a Detroit, a 9 anni ha iniziato a seguire lezioni d’arte settimanali che l’hanno introdotta soprattutto agli affreschi monumentali di Diego Rivera. Suo padre l’aveva lasciata libera di dipingere la sua stanza con i colori che preferiva, era un suo diritto! Così usò un rosso vivo per le pareti e un blu elettrico per le tende ma, i vicini che videro queste scelta decorativa ritenuta “eccessiva”, protestarono con i genitori così, alla giovane Hicks fu vietato di dipingere il resto della casa.
Anni dopo, presso l’importante Università di Yale la studentessa segue lezioni di design da Josef Albers, uno dei più grandi nomi del Bauhaus. Si manterrà per tutta la vita vicina ai principi di questa corrente modernista: mescolare l’arte con la vita. Alcune delle opere della Hicks sono state realizzate utilizzando brandelli di vestiti dei suoi parenti (anche i pigiami del marito che ha integrato in una installazione).
Per i suoi lavori usa di tutto, dalle fibre tessili: lana mohair, vigogna, cotone ma anche materiali come piume di uccelli, fibre di ananas, conchiglie, aculei di porcospino apprezzati anche dagli indiani delle pianure, o biancheria di neonati...
“Mi piace prendere oggetti umili, della vita quotidiana e dare loro un’altra vita, per abbellirli”, dice. Le sue sculture, sono vive e si evolvono adattandosi ai luoghi in cui sono dispiegate, cadendo diversamente a terra, prendendo la luce in un modo nuovo. Nel suo studio Sheila ha sempre lasciato che i suoi due figli giocassero e parlassero con lei della scuola e della loro vita, mentre la aiutavano con i fili.
Dopo gli studi nel 1957 partì per il Cile grazie a una borsa di studio e viaggiò in Venezuela, Colombia, Ecuador e Perù. Si appassiona al modo di tessere delle donne indiane ai tessuti precolombiani, proprio questo sarà l’argomento della sua tesi. Incontra artisti come Jesus Rafael Soto, visual artist venezuelano, famoso per i suoi Penetrables, sipari a strisce in cui il pubblico si perde. La giovane Hicks arriverà persino ai confini del mondo americano, fino alle terre desolate e tormentate della Patagonia, in compagnia del grande fotografo cileno Sergio Lorrain (esposto in particolare ai Rencontres d’Arles nel 2013). In queste terre lontane incontrerà gli ultimi testimoni di questi popoli sterminati all’inizio del Novecento, “che fanno sacchi con erba e canne”, come racconterà nei primi anni ’70 a Monique Levy-Strauss.
All'inizio degli anni '60, Sheila Hicks insegnava design all'università di Città del Messico e viveva in un ranch dedicato all'apicoltura con il suo primo marito. Pur continuando a viaggiare e andando a creare nella regione di Kerala in India, a Rabat in Marocco, in Svezia, ecc., scelse di stabilirsi in Francia a metà degli anni 60. "I miei amici mi consigliarono la Francia, perché in Messico, io era un pesce grosso in un acquario piccolo, ed era meglio diventare un pesce piccolo in un acquario grande…".
"I fili sono elastici, anche nel senso che rendono la mente elastica, fantasiosa".
Sheila Hicks non ha mai fatto una classificazione tra discipline, scultura, design o decorazione. Ha realizzato cuscini per la famosa sedia Tulip di Eero Saarinen, grandi pezzi tessili decorativi come per la Ford Foundation a Manhattan a New York, una collezione di disegni tessili per la ditta Knoll, bassorilievi in seta selvatica da adornare all'interno dei Boeing 74. Nel film “Shining” di Stanley Kubrick, i tappeti dell'hotel sono opera di Sheila Hicks.
Sheila Hicks è sempre stata affascinata dall'"intelligenza della mano".
Aggiunge “Gioco molto con i colori e con i materiali, costruisco architetture e i fili sono elastici, anche nel senso che rendono lo spirito elastico, fantasioso”.
“Le emozioni sono nei materiali e spesso, di fronte a un'opera, lascia che ti ricordino del loro viaggio”.
Arte verde è una rubrica curata da Anne Claire Budin
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- Scritto da Andrea Vitali
L’artista francese di Land Art, Pier Fabre da forma e colore agli agenti atmosferici attraverso le sue installazioni.
Nato a Parigi nel 1961, Pier Fabre si è diplomato Scuola Superiore di Arti Grafiche nel 1987, è stato illustratore e creatore di aquiloni originali che l’hanno reso famoso e richiesto in tutto in mondo, in questo periodo lavora tra Parigi e il suo atelier in Charente Marittima.
Dal 2000 ha utilizzato il dinamismo dell’aria per realizzare interessanti installazioni cinetiche che implementano la dinamica creata dall’aria, dall’acqua e dal vento. Molte delle sue installazioni utilizzano una moltitudine di lame ipersensibili che rendono visibile il passaggio del vento, le turbolenze e gli impercettibili movimenti dell’aria; i risultati di queste opere di Land Art sono senza dubbio spettacolari e generano affascinanti vibrazioni ottiche, accentrate sui colori caldi come il rosso e l’arancio.
Pier Fabre a proposito delle sue installazioni: "Il movimento è il centro mio lavoro di artista visivo: una pratica basata sulla pura percezione, con il tentativo di sviluppare una poetica dell'incidente attraverso l'osservazione e l'ascolto della materia stessa”.
“Nelle grandi installazioni site-specific, gli spazi a scala paesaggistica, la gravità, la danza dell'aria, il flusso dell'acqua, agiscono come forze scultorie, per creare effetti cinetici casuali e complessi da elementi molto semplici.
Moltiplicate per centinaia, queste parti in movimento ipersensibili disegnano vasti spazi di respiro, volumi sovrapposti, una combinazione di fotogrammi in cui i visitatori vengono a immergersi, immersi in campi di vibrazioni visive e sonore”.
“Che si tratti di un teatro della natura, di un deserto urbano o di uno spazio pubblico occupato per la durata di una mostra, la storia e la topografia di ogni sito innescano nuove idee in modo che l'opera sia espressiva nel luogo in cui si sta inserendo. Immerso nell'intimità del paesaggio, dispiegato o sospeso tra elementi architettonici, al di fuori di una situazione museale, ognuno potrà immaginare il motivo per cui si trova lì”.
“Una certa ambiguità è mantenuta dall'aspetto utilitaristico di alcune mie installazioni nello spazio pubblico, lasciando perplessi i passanti sulla loro possibile funzione”.
“Il lavoro preparatorio di progettazione e sperimentazione, il viaggio, la scoperta di nuovi territori, il lavoro di squadra indispensabile alla realizzazione delle installazioni più grandi, gli scambi con visitatori e altri artisti, questo è ciò che intreccia i legami memoriali ed esplorazioni attorno e oltre l'opera stessa, e contribuisce all'emergere di nuove vie di ricerca. È tutta quest’ avventura che mi motiva."
Arte verde è una rubrica curata da Anne Claire Budin
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- Scritto da Andrea Vitali
Come Buster Keaton, il pittore americano Donald Baechler percorre con agilità il sentiero elegante sospeso tra la buccia di banana dell’ovvio e quella dell’oscuro.
Il rischio costante è scivolare, in quel caso il suo lavoro finirebbe tra lacrime comiche, ma Baechler si salva sempre; nonostante un immaginario talvolta stucchevole costruito da volti da cartone animato, giocattoli e illustrazioni da libro per bambini. Riesce anche a evitare l’imbarazzo che potrebbe nascere dal confronto tra il soggetto dell’artista e la consapevolezza dello spettatore e, infine l’opera riesce a posarsi dalla parte della raffinatezza e del tatto.
Nei primi anni ’80 Donald Baechler catalizza l’attenzione su di sé per la prima volta, fa parte del fenomeno dell’East Village, una corrente influenzata dall’arte tedesca contemporanea e lui, più degli altri, ha partecipato attivamente allo scambio culturale transatlantico, studiando dal 1978 al 1979 a Francoforte alla Staatliche Hochschule fur Bildenke Kuenste.
Pur non sciogliendo mai il suo legame con la pittura espressionista astratta, Baechler si lascia affascinare dai disegni per bambini e dalle immagini legate all’arte popolare americana, ma nel suo lavoro non c’è niente di outsider. Baechler lavora le superfici in modo posato, spesso con cupa decisione, testurizzando la tela con pezzi di spugna. Questi motivi funzionano come ampie espansioni grigiastre, indifferenti al colore, che è assente dal suo corpus.
Sembra che Baechler abbia reso le sue immagini infantili sempre più casalinghe; un disegno realizzato in modo rozzo si ripete, a volte diventando più goffo o deforme, senza mai perdere il contatto con il soggetto iniziale. Succede che le sue immagini sfiorino l’astrazione, i contorni diventano più spessi, scuri e strani ma anche più disarmanti: ecco apparire degenerazioni platoniche di animali, alberi, teste, figure simili a bambole. Qui trova il soggetto anche per le sue sculture affascinanti, ad esempio il grande “TREE” in bronzo del 1989, un susseguirsi d’imbuti incastonati uno dentro l’altro. La scultura si basa sul semplice ed espressivo “Princeless, Wordless, Loveless”, un dipinto realizzato tra il 1987 e il 1988. Interessanti anche il contorno rosso della figura in “Painting with Balls”, 1986-87 o i due alberi a forma di puzzle accanto alla testa tonsurata in “Deep North” del 1989. Del 1983 è “Root Hound”, dove il profilo anonimo si contrappone all’immagine di una candela fluttuante, l’ambiguità del dipinto suggerisce l’incontro dell’artista da giovane con una serie d’immagini senza radici di David Salle, in cui ritroviamo il rifiuto post-moderno del significato esplicito del giorno.
Sono di una commovente semplicità le nature morte scultoree di Baechler, che ritraggono fiori e foglie. Alcune ricordano la scultura di Cy Twombly, sagome di compensato a cui sono stati lanciati gesso e cartapesta, altre invece sono fusi nel bronzo e evocano gloriosi biscotti di pan di zenzero floreali.
Arte verde è una rubrica curata da Anne Claire Budin
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Nel 2005 Gohar Dashti consegue il Master in Fotografia alla Tehran University of Art. Impiegando un’estetica unica, quasi teatrale, mette in campo sua personale esperienza intellettuale e culturale attraverso cui pone attenzione sul mondo che la circonda. Negli ultimi 17 anni ha realizzato foto su larga scala con una attenzione particolare alle questioni sociali, facendo riferimento alla storia, alla cultura contemporanea e alle corrispondenze di prospettive antropologiche e sociologiche.
Nelle sue opere più recenti, Dashti ha esplorato, attraverso le sue osservazioni molto stilizzate e densamente poetiche della vita umana e vegetale, l'innata parentela tra il mondo naturale e le migrazioni umane. Affascinata dalle narrazioni umano-geografiche e dalla loro interconnessione con le proprie esperienze personali, Gohar Dashti crede che la natura sia ciò che la collega ai molteplici significati di "casa" e "spostamento", sia come astrazione concettuale, sia come realtà concrete, che tracciano la nostra esistenza. Il risultato è una serie di bizzarri paesaggi e ritratti, tanto lussureggianti quanto arcani, che incoraggiano a interrogarsi sull'immensa, variegata portata della natura che evita i confini - immune da divisioni culturali e politiche - e sui modi in cui gli immigrati necessariamente cercano per poi ricostruire topografie familiari in una nuova terra apparentemente straniera.
2022 Come progetto, "Near and Far" prende le tradizioni occidentali della fotografia naturalistica applicandole un approccio persiano di prospettiva e geometria. I risultati sono intricati collage fotografici che combinano le due filosofie e creano un dialogo visivo tra la natura di due culture, presentando nuove interpretazioni fantastiche e poetiche di ciò che può essere un paesaggio.
2019 “Land/s”, indaga sul potere che ha la natura di far sentire le persone a casa, indipendentemente da dove si trovino sulla Terra. Ogni foto della serie mostra un cartellone pubblicitario mobile situato in un diverso paesaggio scenografico in Iran. Sebbene le foto sui cartelloni assomiglino molto alle topografie cui sono state accostate, ognuna è stata scattata a più di 10.000 chilometri di distanza, negli Stati Uniti.
Inserendo immagini americane nei paesaggi iraniani, Dashti rivela la natura selvaggia come un rifugio per le persone che desiderano "casa" mentre costruiscono una nuova vita in una terra straniera. Land/s è un promemoria di come la natura ci colleghi alle nostre terre, all'infanzia, alle culture e alle storie.
2017 Nella serie "Home", lo spettatore è invitato in set lussureggianti e onirici che modificano le attese sul reale. Una casa sopraffatta dalla natura è una casa deserta, ripulita dai suoi abitanti umani. Le persone si sono trasferite e le immagini mostrano cosa succede quando la propria casa è abbandonata. Le fotografie rivelano il potere della natura di consumare e conquistare un’abitazione.
“Quando parlo di guerra nelle mie opere, mi riferisco alla guerra nel mondo, e mi riferisco anche ai miei ricordi sulla guerra quando ero piccola. Solitamente i miei lavori iniziano come percezioni personali. Il mio recente lavoro non è solo un'esplorazione personale sulla natura, ma riguarda anche il modo in cui la natura può essere politica. Che cosa succede all'ambiente quando le popolazioni umane sono fatte sfollare o distrutte dalla guerra? Le persone sono transitorie mentre la natura è una quantità costante e immutabile. La natura sarà qui molto tempo dopo che tutti noi ce ne saremo andati”.
Arte verde è una rubrica curata da Anne Claire Budin
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L’artista giapponese Tadashi Kawamata è nato a Hakkado nel 1953, fin da giovane si fa notare nella scena artistica giapponese e internazionale.
A 28 anni, dopo la laurea all’Università di Belle Arti di Tokyo, viene invitato al padiglione giapponese della 40esima Biennale di Venezia. Dal 1999 fino al 2005 è stato professore all’Università di Belle Arti di Tokyo, dal 2007 al 2019 ha insegnato all’Accademia Nazionale di Belle Arti di Parigi. Nel 2005 è stato nominato direttore artistico della seconda triennale di Yokohama.
Il suo è un lavoro processuale, dalla forte coscienza ambientalista, che si sviluppa dall’arte all’architettura, dall’urbanistica alla sociologia alla storia. Le sue installazioni site specific sono appena degli schizzi nel paesaggio, con materiali poveri e semplici modalità costruttive riesce a delineare un immaginario e trasforma la percezione dell’ambiente in modo radicale. Kawamata realizza le sue opere con cascate di legni trovati, che bene rappresentano la precarietà della nostra vita. Per Tadashi Kawamata la vita dell’uomo è breve, tutto è temporaneo e la permanenza è solo un’astrazione…
Così è stato lo Tsunami ed è quello che rappresenta con la sua installazione ispirata a questa grande tragedia: un’ondata che travolge tutto quello che incontra. I materiali di legno, i detriti che galleggiano nello Tsunami raffigurano la vita quotidiana che è stata spezzata. Porte, finestre, sedie, cassetti sono tutti materiali di recupero, così come in tutte le sue opere.
A Milano fino al 23 luglio 2022 la galleria Building ospita la mostra NESTS IN MILAN, esposizione a cura di Antonella Soldaini.
Tadashi Kawamata presenta per la prima volta installazioni concepite per quest’occasione. Interventi realizzati in legno, installati negli spazi interni di Building e sulla sua facciata e nel quartiere di Brera. Questi interventi, oltre che a una riflessione sul contesto sociale e le relazioni umane, hanno l’obiettivo di allargare l’area di intervento in modo da inglobare una porzione del tessuto urbano della città.
Il nido è un soggetto simbolico che Kawamata indaga fin dal 1998, partendo da iniziali forme astratte. L’opera di Kawamata interviene in situazioni difficili, come a Kassel nel 1987, per documenta 8, dove l’artista restituisce all’attenzione degli abitanti una chiesa distrutta durante la seconda guerra mondiale, che non è stata ricostruita.
Arte verde è una rubrica curata da Anne Claire Budin