Un albero, fiore, pianta per...
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Ricchissima di nutrienti e di significati, la foglia di coca accompagna da millenni la vita andina, tra usi alimentari, medicinali e rituali profondamente sacri.

Chi la identifica unicamente con la cocaina ignora una storia millenaria, fatta di saperi, rituali e una relazione profonda con la natura. La foglia di coca, in realtà, è una delle piante più ricche di principi nutritivi conosciute: contiene calcio in quantità venti volte superiore al latte vaccino, oltre a proteine, vitamine, zinco, ferro e magnesio. È a tutti gli effetti un superfood.
Usata da sempre nelle regioni andine, dove l’aria rarefatta rende ogni sforzo faticoso, è un alleato quotidiano per affrontare il lavoro e le altitudini. I minatori ne fanno uso da secoli per resistere alla fame, alla stanchezza e al sonno, specialmente nelle miniere d’alta quota.
Ma la foglia di coca è anche medicina. Masticata o infusa in tè, allevia mal di testa, mal di denti, favorisce la digestione, attenua i sintomi dell’artrite e della depressione. In Perù è del tutto legale: si trova nei mercati, in caramelle, farine e biscotti. Nessun effetto psicotropo: solo una tonica alleata contro il “soroche”, il mal di montagna.
Eppure, al di fuori del suo contesto culturale, è ancora fraintesa e proibita. In Italia, ad esempio, anche piccole quantità o prodotti alimentari sono considerati illegali, ignorando il valore tradizionale della pianta.
In ambito andino, la foglia di coca è anche un essere sacro. Offerta alla Pachamama durante le cerimonie di ringraziamento, è il tramite tra umano e divino. Viene anche usata per scopi divinatori: per leggere il futuro, diagnosticare malattie, o consolare un cuore spezzato.
Durante l’epoca incaica era riservata alla nobiltà. Con la colonizzazione spagnola fu demonizzata dalla Chiesa, ma tollerata dagli amministratori, poiché utile per mantenere produttivi i lavoratori. Divenne così anche moneta di scambio e forma di tassazione.
Le leggende raccontano che fu il dio Sole Inti, o la Madre Terra stessa, a donare questa pianta agli uomini per alleviare le fatiche e alimentare lo spirito. E ammoniscono: chi la tocca senza rispetto rischia la follia. Forse, un’antica verità ancora attuale.
AnneClaire Budin
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In Indonesia, una Vespa fatta di legno e radici sfida la strada e il senso comune. È arte, protesta, riuso radicale. È un albero che corre e fuma.

Circola per le strade di Tangerang, Banten, come una creatura impossibile: un ibrido tra scooter e albero, un veicolo lungo e sgangherato che sembra nato da un sogno punk. Lo guidano ragazzi scalzi, con un motore acceso e una visione in testa: costruire dal nulla.
Questa Vespa – se così si può ancora chiamare – è fatta di tronchi, rami secchi, ruote recuperate, fanali improbabili. Porta il marchio “vespa” inciso su un disco di legno annerito. Il corpo è un albero morto, ma il mezzo vive, fuma, brontola. Ed è bellissimo.
Chi l’ha creata? Difficile dirlo, ma chiunque l’abbia fatto è figlio della scena Vespa modifikasi, la cultura underground indonesiana che reinventa e trasfigura l’iconico scooter italiano. In particolare, questa creazione è legata alla community Neo Badjingan Scooter, che da anni alimenta raduni, festival spontanei, e vere e proprie sfide tra costruttori.
Qui il design incontra il caos. Niente simmetrie, niente norme. Ogni mezzo è un manifesto d’identità e libertà. Sulle piattaforme social circolano i video con gli hashtag #VespaPohon (Vespa albero), #Tangerang, #Banten. In queste immagini, un tronco si trasforma in scocca, i rami in manubri, le ruote in cicatrici d’asfalto.
L’albero non è più solo emblema di natura, ma materia prima da reinventare. Legno, metallo e immaginazione si fondono in un veicolo impossibile che grida: noi ci siamo, e ci muoviamo.
Un albero per Vespa, allora, è un albero che ha imparato a camminare di nuovo, tra le mani sporche e visionarie di chi rifiuta il consumo e sceglie la creazione.
AnneClaire Budin
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Il datura, potente allucinogeno e pianta sacra, svela a Pinwheel Cave in California un legame profondo tra arte rupestre, ritualità e visioni ancestrali.

Nel cuore della Wind Wolves Preserve, nella California meridionale, una grotta nascosta racconta una storia di visioni, riti e antichi saperi. La Pinwheel Cave, chiamata così per la figura a spirale rossa dipinta sul soffitto, conserva la prima prova archeologica dell’uso di piante allucinogene in un sito di arte rupestre: la Datura wrightii.
Nota per la sua tossicità e i potenti effetti psicotropi, la datura era usata dai Chumash – popolazione nativa della zona – durante cerimonie di iniziazione e ricerca spirituale. I suoi fiori bianchi, che si schiudono in spirale al tramonto, hanno ispirato visioni, miti e probabilmente anche l’iconica pittura della grotta.
Recenti scavi archeologici guidati da David Robinson hanno rivelato che il sito fu abitato tra il 1530 e il 1890. All’interno della grotta, i ricercatori hanno trovato decine di “chiques” – boli vegetali masticati e poi inseriti in fessure del soffitto – analizzati e risultati contenere atropina e scopolamina, alcaloidi tipici del datura.
Ma la pianta non era solo un mezzo per alterare la coscienza: era considerata un essere sacro, chiamato Momoy e trattato con reverenza. Il datura era parte integrante delle preghiere, della guarigione, della purificazione. Un compagno di visione, più che un semplice psicotropo.
Se la pittura della grotta rappresenta davvero il fiore di datura, allora la Pinwheel Cave potrebbe essere stata un luogo di rituale collettivo, dove giovani iniziati imparavano a vedere “oltre”, guidati da una pianta potente e pericolosa.
Oggi, per la comunità Tejon, questa grotta non è solo una testimonianza archeologica: è un portale per riscoprire il sapere perduto, una radice viva nel terreno del passato, che affonda nella relazione intima tra l’umano e il vegetale.
Una pianta per viaggiare oltre. Una pianta per ricordare chi siamo stati.
AnneClaire Budin
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Robuste, versatili e amate dai collezionisti: le Rudbeckie, con la loro straordinaria varietà di forme e colori, regalano luce e biodiversità ai giardini.

Le Rudbeckie, soprannominate i “soli del giardino”, sono piante perenni che uniscono una bellezza solare a una notevole rusticità. Caratterizzate da fiori luminosi, giallo oro o arancio, con centri bruni o verdi, queste vivaci protagoniste dei giardini estivi e autunnali offrono anche un sorprendente potenziale di collezionismo, grazie alla grande varietà di specie e cultivar oggi disponibili.
Apprezzate da giardinieri esperti e principianti, le Rudbeckie (Rudbeckia spp. L.) vantano oltre 25 specie e numerose varietà ibride. Dal classico Rudbeckia fulgida al vigoroso Rudbeckia hirta, passando per eleganti varietà nane da bordura fino a quelle giganti che superano il metro e mezzo, ogni appassionato può creare collezioni uniche combinando altezze, forme e sfumature. Per i collezionisti, l’interesse sta anche nei diversi portamenti (eretto, cespuglioso), nella durata della fioritura e nei contrasti tra petali e cono centrale.
Originarie del Nord America, le Rudbeckie si sono adattate con facilità anche ai nostri climi. Richiedono una posizione soleggiata e un terreno ben drenato. Una volta stabilite, mostrano una spiccata tolleranza alla siccità e al freddo (fino a -15°C), diventando così perfette per giardini naturali, aiuole miste, bordure e addirittura per la coltivazione in vaso.
La loro lunga fioritura — da giugno a settembre — attrae farfalle, api e altri impollinatori, contribuendo alla biodiversità del giardino. In questo, le Rudbeckie non sono solo ornamentali, ma vere alleate dell’ecosistema.
Facili da propagare per divisione dei cespi, permettono anche al giardiniere collezionista di espandere la propria collezione anno dopo anno. Dividere le piante in primavera o autunno rinvigorisce i cespi e offre l’occasione di scambiare varietà con altri appassionati.
Nella progettazione paesaggistica, si rivelano estremamente versatili: splendide in grandi masse monocromatiche per creare effetti di colore, oppure abbinate ad altre perenni come echinacee, gaillardie e asters per giochi cromatici che evolvono nel tempo.
Il crescente interesse per le varietà antiche, le selezioni americane più rustiche e le nuove cultivar compatte rende oggi il collezionismo delle Rudbeckie un hobby appassionante e accessibile. E ogni anno il mercato internazionale propone nuove selezioni da scoprire.
Per chi cerca una pianta bella, robusta, amica degli insetti utili e al tempo stesso fonte di soddisfazioni collezionistiche, le Rudbeckie sono una scelta luminosa. Non resta che iniziare… e lasciarsi conquistare dal loro sole dorato.
AnneClaire Budin
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Se n’è andato ieri, com’è della verità: all’improvviso. All'amico Roberto Fambrini, che sapeva ascoltare l’inconscio civile di una città e tradurlo in parole giuste, dedico una quercia.
Non era uomo da addii preparati, né da scene. Eppure la sua uscita di scena ci ha colti tutti di sorpresa, come accadeva quando offriva soluzioni inattese, visioni lucide, battute spiazzanti e intelligenti. La sua ironia – mai vana, sempre motivata – era il segno vivo di una cultura autentica, mai esibita. Roberto Fambrini era così: lucido, arguto, profondamente umano. Un riferimento, a Pescia e oltre. Avvocato di rigore e stimatissimo, amministratore generoso, era soprattutto l’amico al quale ci si poteva rivolgere: trovava tempo, parole e pensieri per ciascuno. Si ricordava di tutti e per ognuno trovava un modo, una via, anche minima, per aiutare. Lo faceva con quel garbo raro, con quella misura affettuosa che oggi appare quasi d’altri tempi. Aveva a cuore la sua Pescia, profondamente. E ne portava il peso, con il rammarico di non aver ancora visto quella ripartenza che sognava, quella rinascita fatta di giovani impegnati nella politica e di una politica finalmente capace di occuparsi davvero dei giovani. Era questa la sua visione: una città viva, inclusiva, pensante. E lo diceva con dolce fermezza, con speranza razionale. Amava gli animali con lo stesso rispetto profondo che riservava alle persone. Non faceva mai mancare loro un gesto di tenerezza, un cenno, una carezza. E in quel modo – mai esplicito, ma radicale – giudicava anche gli uomini: li misurava dalla capacità di accogliere e rispettare la vita, tutta. Chi prendeva distanza, chi voltava lo sguardo, non era più parte del suo mondo. Nemmeno se lo era stato. Con Franca ha condiviso un’intimità autentica e viaggi che, negli anni, sono diventati un rito di scoperta e riflessione: l’Italia che amava e le mete straniere, come Francia e Spagna, che negli ultimi tempi aveva prediletto non solo per bellezza ma per ispirazione civica. Per lui, quei paesi rappresentavano modelli di un vivere democratico più consapevole, più equo, più vero.
Per me, Roberto è stato un amico nel senso più pieno del termine. Le nostre conversazioni, le nostre divergenze, sono state esercizi di crescita reciproca. E oggi, nel silenzio che ha lasciato, resta la sua voce interiore: un invito costante a essere migliori, a credere nella parola, nell’ascolto, nella comunità. Per questo voglio piantare una quercia per lui. L’albero che resiste, che cresce lento e sicuro, che protegge e custodisce. Perché Roberto era tutto questo. E continuerà a esserlo. Radicato nella nostra memoria, e nei nostri gesti futuri. Un pensiero affettuoso a Franca, a Niccolò, e a tutti noi che abbiamo avuto il privilegio di camminare accanto a lui, anche solo per un tratto.
Andrea Vitali