Arte Verde
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- Scritto da Andrea Vitali
Otobong Nkanga, artista nigeriana di fama internazionale, unisce materiali naturali, installazioni multisensoriali e riflessioni profonde su temi ambientali, identitari e umani.
Otobong Nkanga, nata nel 1974 a Kano, Nigeria, è un’artista di spicco sulla scena contemporanea, conosciuta per le sue opere che intrecciano tematiche ambientali, sociali e culturali. Cresciuta tra l’Africa e l’Europa, Nkanga ha sviluppato una sensibilità artistica che si nutre della sua esperienza interculturale, dalla Nigeria a Parigi, dove si è trasferita con la famiglia durante l’infanzia, fino ad Anversa, dove vive e lavora da molti anni. Questa esperienza di migrazione e multiculturalità è una delle chiavi interpretative della sua arte: un racconto di connessioni che supera le barriere geografiche e le differenze culturali.
L’opera di Nkanga si caratterizza per l’uso di materiali naturali e simboli tratti da diverse tradizioni e culture, che convergono in installazioni complesse, dove convivono disegni, fotografie, ceramiche e oggetti tessili, spesso accompagnati da performance e suoni che amplificano il messaggio artistico. L’artista è affascinata dalle risorse naturali e dal loro ciclo di vita, dalle origini all’estrazione, fino alla distribuzione globale. Questo interesse verso l’ambiente, le risorse e i loro impatti sociali ed ecologici si esprime nelle sue opere attraverso materiali simbolici come il carbone, la terra e la fibra naturale, elementi ricorrenti nei suoi lavori e utilizzati per sollevare questioni legate allo sfruttamento ambientale e alle conseguenze per le comunità locali.
Uno dei temi centrali nella sua ricerca è l’estrazione delle risorse naturali, un processo che Nkanga descrive come “impronta dell’umanità sulla terra” e che rappresenta il punto di partenza per esplorare temi di perdita, memoria e trasformazione. Il suo approccio non è giudicante: Nkanga usa un linguaggio poetico, capace di tradurre domande complesse in opere di rara bellezza, spesso arricchite da elementi multisensoriali come profumi, suoni e tattilità, che invitano lo spettatore a un’esperienza fisica e spirituale.
Un esempio emblematico della sua visione è l’opera "Carved to Flow", un progetto che ha attraversato vari luoghi espositivi e ha coinvolto diverse culture e materiali. Attraverso un processo collettivo e collaborativo, Nkanga ha creato mattoni di sapone utilizzando ingredienti locali provenienti dal Mediterraneo, dal Medio Oriente e dall’Africa, trasformando un semplice oggetto in simbolo di connessione tra popoli e paesi. Questo progetto ha portato alla creazione di una fondazione senza scopo di lucro che ha acquistato terreni agricoli in Nigeria e finanziato uno spazio artistico ad Atene, espandendo l’impatto dell’opera dal piano simbolico a quello concreto.
Il lavoro di Nkanga è fortemente influenzato dal pensiero secondo cui “tutto è interconnesso”: per lei, ogni materiale porta con sé storie e identità, e il suo lavoro mira a svelare queste narrazioni nascoste. Attraverso le sue opere, l’artista esplora come le risorse estratte dalla terra, una volta trasformate, possano influenzare la cultura, la bellezza e persino la salute. Questo sguardo globale e al tempo stesso intimamente umano le ha permesso di diventare una voce importante nel panorama artistico contemporaneo, aprendo nuove prospettive su come possiamo relazionarci con il mondo naturale e le nostre stesse emozioni.
Con mostre internazionali e numerosi riconoscimenti, tra cui il prestigioso Nasher Prize, Nkanga continua a ridefinire i confini della scultura e dell’arte concettuale. Le sue opere non sono mai semplici oggetti da contemplare, ma esperienze che invitano a riflettere sulla complessità delle interazioni tra l’uomo, la natura e il passato che li lega. Nkanga offre al pubblico una forma di arte sociale, intima e spirituale, che invita a riconoscere la bellezza e il valore di ciò che ci circonda, senza trascurare le sfide e le fragilità del nostro tempo.
Arte Verde è una rubrica curata da Anne Claire Budin
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- Scritto da Andrea Vitali
La serie fotografica di Helmut Wimmer, THE LAST DAY, fonde natura e cultura per creare una potente riflessione storica sulla memoria collettiva.
La serie THE LAST DAY di Helmut Wimmer esplora il legame tra natura e storia umana, presentando dodici Tableaux fotografici che trasformano i paesaggi in testimoni silenziosi della nostra memoria collettiva. In queste immagini, la natura non è solo un elemento estetico ma diventa un “archivio” che conserva le tracce degli eventi umani, evocando storie nascoste e dimenticate.
Attraverso un dialogo visivo tra elementi naturali e motivi storici, Wimmer suggerisce che ogni paesaggio porta con sé frammenti di passato. I suoi scatti del mare, per esempio, non solo mostrano la potenza distruttiva delle onde, ma richiamano alla mente il cambiamento climatico e le tragedie delle migrazioni moderne. Così, il mare si trasforma in simbolo di forza naturale e, al contempo, di vite perse nel tentativo di cercare salvezza.
Questi paesaggi evocano memorie legate a momenti storici e culturali: tracce di antichi insediamenti, reminiscenze di conflitti e segnali di catastrofi ambientali. Wimmer invita chi osserva a riflettere sull’intersezione tra memoria culturale e ambiente, facendo emergere domande profonde sul rapporto tra uomo e natura e sulle impronte che vi lasciamo.
Con THE LAST DAY, Wimmer non racconta una storia lineare, ma crea un mosaico di immagini che invita alla riflessione personale. Ogni Tableau rappresenta un frammento di tempo che interroga il presente. Il visitatore è libero di interpretare le immagini, confrontandosi con emozioni di rabbia, ricordo e speranza. In questo modo, la natura si presenta come custode della storia umana, mentre l’arte di Wimmer ne svela il potere evocativo e stimola un dialogo tra memoria e futuro.
Arte Verde è una rubrica curata da Anne Claire Budin
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- Scritto da Andrea Vitali
L'artista giapponese Mari Ito, nata a Tokyo e residente a Barcellona, utilizza la tecnica tradizionale del Nihonga per esplorare i desideri umani. I suoi fiori antropomorfi esprimono emozioni complesse, creando un ponte tra tradizione e contemporaneità.
Mari Ito è un’artista che riesce a far dialogare due mondi: quello della tradizione giapponese, attraverso la tecnica del Nihonga, e quello dell’arte contemporanea. Nata a Tokyo nel 1980, ha studiato pittura giapponese tradizionale, per poi trasferirsi a Barcellona nel 2006. Da quel momento, il suo percorso artistico ha trovato nuovi orizzonti espressivi, contaminando le tecniche classiche del suo Paese con influenze internazionali e una sensibilità contemporanea.
Il tratto distintivo delle opere di Mari Ito è la rappresentazione di fiori con volti umani. Queste figure, che si trovano sia nelle sue opere bidimensionali sia in quelle scultoree, sono simboli visivi del desiderio umano. Attraverso colori vivaci e linee delicate, Ito esplora i temi della felicità, del dolore e della collera, creando un linguaggio visivo che riesce a comunicare emozioni profonde senza l’uso delle parole. I fiori con volti sono una metafora potente del ciclo della vita, delle emozioni e dei desideri che, come piante, germogliano e crescono all'interno dell’essere umano.
Il suo interesse si focalizza in particolare sul desiderio, un tema centrale che l’artista analizza seguendo le teorie psicoanalitiche. I volti sui fiori esprimono l'Es, il lato più primitivo e impulsivo della psiche umana secondo Sigmund Freud. Questi volti sono a volte sorridenti, altre volte angosciati o riflessivi, incarnando la dualità del desiderio umano: da un lato il bisogno di felicità, dall'altro il peso della sofferenza e delle emozioni represse. In un certo senso, il lavoro di Ito cerca di dare forma visiva a quei sentimenti nascosti che nella cultura giapponese, in particolare negli spazi pubblici, tendono a rimanere inespressi. La sua arte diventa così un canale attraverso cui questi pensieri e sentimenti possono emergere.
Mari Ito usa i fiori antropomorfi anche per esaminare la relazione tra la cultura giapponese e il modo di esprimere emozioni. In Giappone, manifestare apertamente certe emozioni, come la rabbia o la tristezza, è spesso considerato inappropriato, specialmente in pubblico. Questo silenzio emotivo si riflette nei suoi lavori, dove i fiori sembrano soffocare i loro desideri, ma allo stesso tempo riescono a comunicarli in modo sottile e profondo. Il contrasto tra la vivacità dei colori e la delicatezza dei volti crea una tensione emotiva che invita lo spettatore a riflettere sulla complessità della psiche umana.
Il Nihonga: una tecnica antica e contemporanea
Il termine Nihonga (日本画), che significa "pittura giapponese", nasce durante l’era Meiji, alla fine del XIX secolo, per distinguere la pittura tradizionale giapponese dallo stile occidentale, o Yōga, che stava diventando popolare. Nonostante si fondi su tecniche millenarie, il Nihonga ha accolto alcune influenze occidentali grazie a intellettuali giapponesi e figure come Ernest Fenollosa, che apprezzavano il dialogo tra le due culture.
La pittura Nihonga utilizza materiali naturali come minerali, conchiglie, rocce e metalli preziosi, mescolati con colla animale. I pigmenti vengono applicati su carta di riso o seta, con una lavorazione delicata e trasparente. L’artista traccia prima i contorni con inchiostro, per poi applicare i colori. Questa tecnica richiede precisione e grande abilità tecnica.
Mari Ito ha studiato e praticato il Nihonga, portando questa tradizione nel suo linguaggio contemporaneo. Nei suoi lavori, le tecniche tradizionali si fondono con nuove idee visive, esplorando temi come il desiderio e l’emotività umana. I suoi fiori antropomorfi, delicati nei dettagli ma vibranti nei colori, sono un ponte tra la tradizione giapponese e l’arte moderna, creando un dialogo affascinante tra passato e presente.
Arte Verde è una rubrica curata da Anne Claire Budin
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Zoe Leonard intreccia temi di confinamento e liberazione, esplorando la natura e la comunità attraverso scultura e fotografia, invitando a una riflessione profonda sull'osservazione e la rappresentazione.
Zoe Leonard, artista nata a Liberty, New York, e residente tra New York City e Marfa, Texas, ha sviluppato una pratica artistica che esplora in profondità il rapporto tra l'individuo e l'ambiente circostante. Attraverso la scultura, la fotografia e le installazioni, Leonard affronta temi come il confinamento e la liberazione, la solitudine e la comunità, il tutto intrecciato con una riflessione sulla natura della rappresentazione e dell'osservazione.
Un esempio significativo di questo approccio è Strange Fruit (1992-1997), un'opera composta da circa trecento bucce di frutta cucite insieme. Questo lavoro, realizzato in un periodo di profonda crisi personale e sociale, riflette la fragilità della vita e la tensione tra conservazione e decomposizione. Leonard ha deciso di lasciare che l'opera si decomponga naturalmente, in modo che il ciclo di vita e morte si manifesti in tutta la sua inevitabilità. Strange Fruit va oltre il tema della perdita: è un invito a riflettere sul tempo, la memoria e la trasformazione.
Il progetto Al río / To the River (2016-2022) esplora invece il confine tra Stati Uniti e Messico lungo il Rio Grande. Leonard documenta il fiume come un luogo di divisione ma anche di connessione, dove la natura incontra le tensioni politiche e sociali. Queste immagini rivelano il fiume come un elemento naturale trasformato in una barriera, sollevando domande su appartenenza e identità.
Leonard affronta questi temi non solo attraverso il contenuto delle sue opere, ma anche attraverso la forma in cui sono presentate. Le sue fotografie, che spesso riprendono prospettive insolite o dettagli minimi, invitano lo spettatore a riconsiderare il modo in cui osserviamo il mondo. Questo approccio è particolarmente evidente in lavori come Untitled Aerial (1988-1997), una serie di fotografie aeree che catturano il paesaggio in modo distaccato, svelandone la struttura sottostante e mettendo in discussione le nozioni tradizionali di bellezza e ordine.
Nella sua arte, Leonard esplora come il paesaggio e gli oggetti possano essere osservati da diverse prospettive, influenzando il modo in cui li percepiamo. L'atto stesso dell'osservare diventa un tema centrale: Leonard ci spinge a considerare l'osservazione non come un semplice atto passivo, ma come un processo complesso e in continua evoluzione, che può trasformare la nostra comprensione della realtà. La capacità di Leonard di bilanciare un rigoroso concettualismo con una visione personale fa sì che le sue opere siano al contempo universali e profondamente intime. Esplorando temi come il genere, la sessualità, la perdita, il lutto, la migrazione e il paesaggio urbano, Leonard invita lo spettatore a non limitarsi a guardare, ma a osservare attivamente, riconoscendo che il processo di osservazione è complesso e in continua evoluzione.
In sintesi, l'arte di Zoe Leonard si distingue per la sua capacità di intrecciare natura, identità e paesaggio in un dialogo continuo. Le sue opere ci invitano a riflettere su come osserviamo e interagiamo con il mondo, esplorando le dinamiche di confine e appartenenza, e mettendo in discussione le nostre percezioni della realtà. Leonard ci ricorda che la natura, così come la nostra esperienza di essa, è fluida, mutevole e profondamente interconnessa con le questioni sociali e culturali che definiscono il nostro tempo.
Arte Verde è una rubrica curata da Anne Claire Budin
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- Scritto da Andrea Vitali
Giulio Delvè, artista napoletano, trasforma la realtà quotidiana in opere d’arte attraverso la manipolazione di oggetti comuni. Le sue creazioni sfidano le percezioni e reinventano il significato degli oggetti stessi, proponendo nuove narrative visive e concettuali.
L’arte di Giulio Delvè, nato a Napoli nel 1984, è un’affascinante esplorazione della realtà circostante, attraverso un processo di manipolazione e reinterpretazione degli oggetti quotidiani. Vive e lavora tra Napoli e Berlino, due città che rappresentano poli di ispirazione contrastanti, ma complementari. Napoli, con il suo tessuto sociale complesso e dinamico, offre a Delvè una fonte inesauribile di materiali, immagini e storie. Berlino, con la sua scena artistica internazionale e la sua atmosfera post-industriale, fornisce il contesto ideale per sperimentazioni più audaci e concettuali. Delvè si distingue nel panorama artistico contemporaneo per la sua capacità di spostarsi agilmente tra diverse forme espressive: scultura, installazione, fotografia, performance. Questa versatilità, tuttavia, non è un semplice esercizio di stile. Piuttosto, è una manifestazione di una profonda ricerca concettuale che si concentra sul significato degli oggetti e sul loro potenziale narrativo. Ogni opera di Delvè è una storia in potenza, un racconto silente che attende di essere svelato dall’osservatore. Il suo approccio artistico potrebbe essere definito come “pensiero laterale”, un modo di affrontare la realtà non frontale, ma di lato, con uno sguardo che va oltre la superficie per scoprire significati nascosti. Delvè ri-assembla gli oggetti, li decontestualizza, li rifunzionalizza, dando loro nuove identità e nuove storie. In questo processo, l’oggetto diventa non solo un testimone muto del tempo, ma un protagonista attivo della narrazione.
Un esempio emblematico del lavoro di Delvè è la serie di sculture intitolata "Speakeasy" (2011). In queste opere, Delvè ricrea strutture idrauliche che, nella loro assurdità funzionale, richiamano le pratiche collettive del bere e del festeggiare. Qui, l’oggetto non solo racconta una storia, ma incarna un’intera cultura, fatta di gesti, riti e memorie condivise. La funzione di questi oggetti è chiara e implicita, nonostante la loro forma inusuale: sono strumenti per il consumo rapido di alcol, un richiamo ironico alle pratiche sociali di certe feste giovanili. Ma, come accade spesso con le opere di Delvè, dietro l’apparente semplicità si cela una riflessione più profonda sul ruolo degli oggetti nella costruzione delle nostre memorie e identità collettive. Un altro lavoro significativo è "Lookout" (2011), una serie di paletti colorati e improvvisati, piantati abusivamente in secchielli di cemento per reclamare lo spazio pubblico da parte degli abitanti di alcune zone di Napoli. Questi oggetti, apparentemente insignificanti, diventano simboli di una micro-comunità che cerca di affermare la propria esistenza e i propri diritti in un contesto urbano spesso caotico e indifferente. I paletti di Delvè, con la loro estetica precaria e improvvisata, esprimono una forma di resistenza quotidiana, ma anche l’incongruenza tra l’autorità istituzionale e quella esercitata informalmente dalle persone comuni. Delvè ha esposto in numerose mostre personali e collettive, ottenendo riconoscimenti sia in Italia che all’estero. Tra le mostre personali, spiccano "Condominium" alla Mendes Wood (2017) e "Conspire means to breathe together" a Supportico Lopez (2016). Queste esposizioni hanno messo in luce la capacità di Delvè di creare spazi espositivi che non sono semplici contenitori per le sue opere, ma veri e propri ambienti immersivi, in cui lo spettatore è chiamato a interagire e a riflettere. Nel contesto delle mostre collettive, Delvè ha partecipato a eventi di rilievo come "If I Was Your Girlfriend: A Jam" alla Belmacz Gallery (2018) e "Made in Naples" al Polo dello Shipping a Napoli (2018). In questi contesti, le opere di Delvè si sono confrontate con quelle di altri artisti, creando un dialogo ricco di significati e suggestioni.
La poetica di Giulio Delvè è una celebrazione della complessità del presente, un’indagine sulle tracce che lasciamo nel mondo attraverso gli oggetti che utilizziamo e che, a loro volta, ci definiscono. La sua arte invita a un’osservazione attenta, a un’interazione che va oltre la superficie, alla ricerca di quei significati nascosti che solo uno sguardo laterale, e non convenzionale, può rivelare. In un’epoca in cui l’arte rischia spesso di ridursi a mera estetica o a semplice provocazione, Giulio Delvè ci ricorda l’importanza di restare ancorati alla realtà, di esplorare il quotidiano con curiosità e rispetto, di vedere negli oggetti comuni non solo cose, ma storie, memorie, identità. Con la sua opera, Delvè non solo reinterpreta il mondo, ma ci invita a farlo insieme a lui, in un viaggio di scoperta e risignificazione continua.
Arte Verde è una rubrica curata da Anne Claire Budin