LA MATERIA CHE PARLA: GLI ALBERI SRADICATI DI DORIS SALCEDO
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in Arte Verde

Con "Uprooted", l’artista colombiana Doris Salcedo erige una casa di 804 alberi morti: una scultura monumentale, silente testimone del dolore dei migranti e del disastro ecologico.

Nel cuore della sua opera più recente, "Uprooted", Doris Salcedo compone una casa impossibile. Costruita con 804 alberi morti e travi d’acciaio, misura 6,5 metri d’altezza, 30 di lunghezza, 5 di profondità. Imponente e inabitabile, questa architettura disfunzionale diventa emblema visivo dell'esilio forzato, della disgregazione dell'identità, dell'impermanenza come unica dimora possibile per chi è stato sradicato. L’opera si pone al crocevia tra scultura, land art e installazione memoriale.
Il materiale stesso—alberi senza vita—parla senza voce. La casa non protegge, non contiene, non abita: rappresenta ciò che rimane quando tutto è perduto. Salcedo conduce una riflessione profonda sulle condizioni dei rifugiati, dei migranti, dei desplazados, persone costrette a muoversi per sopravvivere, ma mai veramente accolte. Secondo l’artista, la causa di questi movimenti coatti risiede in un sistema economico predatorio che distrugge l’ambiente e i legami sociali. Così, "Uprooted" si fa luogo di contraddizione estrema: radicato nel suolo ma essenzialmente privo di radici, resistente e al contempo fragile.
Salcedo, già nota per opere che indagano la violenza e la memoria, come "Plegaria Muda" e "A Flor de Piel", utilizza la materia viva e morta—terra, petali, mobili, acciaio—per evocare i rituali del lutto negato, la trasformazione del dolore in forma. In "A Flor de Piel" (2012), ad esempio, cuce migliaia di petali di rosa con filo chirurgico, creando un sudario di sangue rappreso in omaggio a un’infermiera vittima di torture. In "Plegaria Muda" (2008–2010), delle tavole rovesciate diventano tombe da cui spunta l’erba: la vita insiste, anche nella morte.
Il paesaggio in cui agisce Salcedo non è naturale ma sociale. È un terreno di scontro tra la memoria e l’oblio, tra la giustizia e la negazione. Le sue installazioni non sono monumenti ma atti di resistenza poetica: "azioni di lutto" che restituiscono spazio ai morti e visibilità agli assenti. L’arte, nelle sue mani, si fa strumento politico senza retorica, capace di muovere lo spettatore non con la denuncia, ma con l’emozione viscerale della materia che parla.
La dimensione vegetale è spesso centrale nel suo lavoro: fiori, alberi, erba sono i vettori di una vita che tenta di sopravvivere al trauma. In "Palimpsest", l’acqua disegna nomi dimenticati su lastre di pietra; in "Disremembered", migliaia di aghi trapassano camicie trasparenti, in un dolore tanto silenzioso quanto tangibile. Ogni opera è un rito, ogni installazione un giardino della memoria.
"Uprooted", in questo contesto, rappresenta l’atto estremo della dissociazione dal mondo, ma anche il seme di una nuova narrazione: la casa degli alberi morti può forse farsi santuario per chi ha perduto tutto, tranne la dignità. Per chi opera nel verde, dai vivaisti ai progettisti del paesaggio, l’opera di Salcedo non è solo testimonianza artistica, ma interrogativo aperto su ciò che accade quando la natura non è più madre ma campo di battaglia. In un mondo in cui il cambiamento climatico e le migrazioni si intrecciano sempre più strettamente, Salcedo ci invita a riconsiderare il nostro rapporto con la materia viva e con chi, come gli alberi, viene strappato dalla propria terra.
Arte Verde è una rubrica curata da Anne Claire Budin