Filiera olivo-olio

Intervista sull’olivicoltura italiana a Pantaleo Greco, presidente della sezione olivicola nazionale di Confagricoltura: gli olivicoltori dovrebbero essere liberi di scegliere fra impianti intensivi, super intensivi o tradizionali, e fra cultivar autoctone o no, ma «purtroppo» la normativa italiana non lo consente; gli alberi di interesse paesaggistico devono essere a carico della comunità, non dell'agricoltore; le varietà italiane Leccino e FS 17 (Favolosa) sono resistenti alla Xylella (che a Lecce ha causato un calo produttivo del 50%) e «possono avere una marcia in più se coniugabili con sistemi colturali interessanti» (la «più vicina a questo equilibrio è la Favolosa»); «è quasi la norma» che i premi internazionali non vengano vinti da oli italiani.


C’era anche Pantaleo Greco, il presidente della sezione olivicola nazionale di Confagricoltura proveniente dalla Puglia, fra i relatori del convegno del 23 marzo sul tema “Coltivare l’olivo” organizzato dall’Unione provinciale agricoltori (Confagricoltura) di Siena in collaborazione con il Santa Chiara Lab dell’ateneo senese e l’Associazione produttori olivicoli toscani (vedi nostro servizio). Floraviva ha colto l’occasione per intervistarlo a tutto campo su alcuni temi caldi dell’olivicoltura italiana e per capire meglio la direzione delle politiche olivicole di Confagricoltura.
Nel suo intervento ha riportato alcuni dati che dimostrano con chiarezza un fenomeno ben conosciuto: poca produzione rispetto alle necessità. Mi può riassumere la situazione?
«Come dicevo prima, c’è una carenza strutturale del sistema olivicolo italiano. Siamo passati nel giro di 15 anni dalle 800 mila tonnellate dichiarate dai registri Agea all’ultima campagna in corso che si dovrebbe chiudere intorno alle 300/350 mila tonnellate…»
…solo olio d’oliva extravergine o tutto l’olio d’oliva?
«Questo è un dato che si riferisce all’intera produzione. L’industria olearia italiana ha un fabbisogno di circa 800 mila tonnellate; quindi, anche considerando un margine di errore per questi grandi numeri, il sistema olivicolo italiano non è in grado di soddisfare il sistema industriale italiano. A quei numeri a cui facevo riferimento prima bisogna inoltre detrarre una quota consistente per l’autoproduzione, che non è disponibile per l’industria olearia, e un’altra parte che è lampante, che va all’industria della raffineria per poi essere usata per sottoli».
Rispetto agli anni scorsi come è andata?
«L’anno scorso stavamo intorno alle 150/180 mila tonnellate».
Ed era peggio dell’anno precedente?
«Sì. Questo è un quadro a cui è facile dare una motivazione, perché il sistema olivicolo italiano in questi ultimi 40 anni non si è rinnovato. In Spagna sono stati fatti più piani olivicoli che hanno permesso di ristrutturare gli impianti, di renderli più produttivi e di rendere anche più economicamente sostenibile la gestione di un sistema colturale arboreo che è di per sé complesso, nonostante la Spagna abbia delle peculiarità che la penalizzano, come una certa scarsa disponibilità della risorsa irrigua. Ma la Spagna in questi anni ha avuto il coraggio di investire, di rinnovarsi, di non tutelare in maniera ideologica e demagogica l’albero di olivo. Perché un albero di olivo è un albero da frutto, che quindi come gli altri alberi da frutto deve essere considerato nella sua vitalità, nella sua vita economica, che ha un certo ciclo. E se ci sono degli alberi di un particolare interesse storico e paesaggistico devono essere tutelati per un costo della comunità ma non del singolo agricoltore».
Ecco, a livello di politiche olivicole in positivo a che cosa mirate? Intensivo o super intensivo oppure optate per un pluralismo di scelte? Insomma qual è la vostra politica olivicola?
«La nostra politica si può riassumere in una frase: l’imprenditore agricolo deve essere libero di scegliere. Quindi la libertà di scelta lo può portare al sistema intensivo, al sistema super intensivo o anche alla conservazione dell’oliveto tradizionale. La cosa importante è che deve essere libero di scegliere. Ad oggi purtroppo la normativa italiana non consente queste libertà di scelta. C’è una legge del 1951, la n. 144, che vieta l’estirpazione della piante di olivo [con qualche eccezione, ndr], legge che aveva un senso sessant’anni fa e che adesso ha perso il suo senso».
E riguardo alle varietà di piante da utilizzare per chi vuole infittire gli uliveti o fare nuovi impianti? Qual è la vostra posizione: solo italiane oppure no?
«Sulle varietà di piante sono aperto come lo sono per il sistema colturale. Ma faccio un esempio per spiegarmi: la provincia di Bari è la provincia a maggiore superficie cerasicola d’Italia, dove la cultivar importante è la [ciliegia] Ferrovia. La cultivar Ferrovia non è una cultivar italiana, ma tedesca. Quindi c’è la storia della cerasicoltura italiana [coltivazione di ciliegie, ndr] che in realtà si poggia non su una cultivar autoctona italiana, ma su una cultivar tedesca. Quindi ben venga la selezione di ecotipi autoctoni, però non dobbiamo nemmeno essere culturalmente non aperti a selezionare degli ecotipi solo perché sono stati sviluppati in un vivaio spagnolo o cileno. Ormai il mondo non ha confini…»
…non pensa quindi che possa essere un volano dal punto di vista del marketing puntare sulle cultivar italiane?
«Sì, sì, sicuramente. Però nell’esempio che facevo prima il volano ha fatto girare tanto velocemente che adesso la Ferrovia è considerata una cultivar italiana, ma italiana non è».
Passando ai campi varietali della Provincia di Lecce di cui ha parlato, di che si tratta?
«Come ben si sa, dal 2013 abbiamo la presenza, per la prima volta in Europa, del batterio Xylella fastidiosa, e proprio per andare incontro alle esigenze degli olivicoltori sono stati realizzati dei campi varietali dove sono sotto osservazione circa 300 cultivar provenienti da tutto il mondo per valutare la tolleranza alla Xylella. Perché la tolleranza alla Xylella da ora ai prossimi anni sarà la vera discriminante della scelta colturale. In base alle linee di mesoclima, cioè agli andamenti climatici di tutte le zone del bacino del Mediterraneo, si sa con un buon grado di certezza dove il batterio arriverà e dove non arriverà. E’ auspicabile che già da adesso si inizi a fare una politica di scelta varietale oculata e indirizzata in questo senso».
Quindi in questi campi fate solo monitoraggio. Sta emergendo già qualcosa di interessante?
«Ci sono due lavori scientifici pubblicati che indicano il Leccino e l’FS 17, la Favolosa, come varietà resistenti alla Xylella…»
…queste sono italiane, vero?
«Sì, sono italiane».
Ci sono anche varietà spagnole resistenti?
«No».
Quindi da questo punto di vista le cultivar italiane possono avere una marcia in più?
«Possono avere una marcia in più se sono coniugabili con dei sistemi colturali interessanti. Ad oggi la varietà più vicina a dare questo equilibrio è la Favolosa».
Un’altra sua osservazione che mi ha colpito è quando ha detto che gli oli d’oliva italiani non sono i migliori e che ai premi internazionali a vincere a volte sono oli stranieri. Conferma?
«Assolutamente. Non è “a volte” che li vincono gli oli non italiani, è quasi la norma che i premi internazionali non vengano vinti da aziende italiane. Perché esistono tante varietà, che hanno tante peculiarità, e l’importante è che siano raccolte, lavorate e conservate bene. Poi, sa, il panel disegna il profilo organolettico di un olio con prevalenza di pomodoro, carciofo, mandorle ecc.: tutte queste caratteristiche che lo delineano. Però l’importante è che sia un olio lavorato ed estratto bene. Poi sulle varietà io, ripeto, non ho preconcetti di fondo. L’olio migliore è quello buono che costa meno».
Quanto ha inciso la Xylella sui cali produttivi degli ultimi anni in Puglia? E’ stata fatta una valutazione precisa?
«Guardi, la provincia di Lecce produce quanto l’intera Regione Toscana, come dati. Siamo intorno al 10% della produzione nazionale. In provincia di Lecce c’è stato un calo del 50%».
Da quando è iniziata la Xylella a ora?
«In tre anni, sì».

Lorenzo Sandiford

Al convegno “Coltivare l’olivo” del 23 marzo di Confagricoltura Siena le ricette del prof. Riccardo Gucci per rilanciare l’olivicoltura italiana alzando i livelli produttivi: «rinnovo degli oliveti in aree potenzialmente competitive» (il 37% degli ettari olivati) con impianti a maggiore densità, olivi dalle chiome libere e voluminose, più superfici esposte, raccolta meccanizzata e irrigazione; politiche che puntino sulle varietà autoctone (più di 600), ma senza veti alle aziende che scelgano super intensivo con varietà spagnole. L’Associazione produttori olivicoli toscani ha fatto sapere che Co.Agri è in cerca di olivicoltori che conferiscano quote dell’olio prodotto da commercializzare.

 
«Le condizioni che si possono trovare a livello aziendale danno veramente una casistica infinita, per cui io non escludo che ci possano essere margini ed interesse per singole aziende dove metteranno varietà spagnole e non vedo che cosa ci sia di male. Diversamente auspico che a livello territoriale, quindi parlo di Regioni, di comprensori, di Italia, manteniamo una connotazione identitaria con le nostre varietà, perché noi ne abbiamo più di 600. Quindi, se si lavora, poi usciranno anche quelle che consentono di utilizzare uliveti molto fitti». Ad esempio il prof. Tiziano Caruso, docente del Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali dell’Università di Palermo, ha guidato «un lavoro sulle collezioni di germoplasma presso dei campi regionali, dove hanno, credo, un 40/50 varietà siciliane, e tra quelle hanno individuato due o tre genotipi che presentano caratteristiche di produttività, e anche molto interessanti dal punto di vista della qualità dell’olio, che si adattano all’altissima densità».
E’ quanto risposto da Riccardo Gucci, professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e agro-ambientali dell’Università di Pisa, ad una domanda postagli da Floraviva per chiarire la sua posizione riguardo alle piante da utilizzare per rinnovare gli oliveti italiani, al termine del convegno “Coltivare l’olivo”, tenutosi il 23 marzo al Santa Chiara Lab dell’Università di Siena. Un incontro organizzato dall’Unione provinciale agricoltori (Upa) di Siena (Confagricoltura) in collaborazione con il Santa Chiara Lab e l’Associazione produttori olivicoli toscani (Apot), a cui sono intervenuti anche il prof. di Bruno Bagnoli, docente di Entomologia applicata ai prodotti agroalimentari e alla viticoltura del Dipartimento per l’innovazione nei sistemi biologici agroalimentari e forestali dell’Università della Tuscia di Viterbo, con una relazione intitolata “Principali avversità biotiche dell’olivo e strategie di controllo ecosostenibile”, il presidente della Sezione nazionale olivicola di Confagricoltura Pantaleo Greco e il vice presidente dell’Apot Orlando Pazzagli.
Tutto l’intervento di Riccardo Gucci, che non si è limitato al tema “Evoluzione dei modelli di impianto e nella gestione degli oliveti” ma ha esaminato la situazione generale, ha perorato la causa del rinnovamento di una parte almeno degli uliveti tradizionali. «Le esigenze di un’olivicoltura moderna – ha spiegato – sono le seguenti: a) ridurre i costi di produzione, b) aumentare la produzione, c) migliorare la qualità dell’olio, d) ridurre l’impatto ambientale, e) dare valore al prodotto». Che cosa si è fatto in Italia e in Toscana negli ultimi 20 anni da questo punto di vista? Sul punto c), cioè la qualità dell’olio, qualcosa si è fatto e non solo in Toscana, nella quale non siamo messi male neanche sul punto e) del dare valore al prodotto. Ma del punto b), aumentare la produzione, «ce ne siamo dimenticati». 
Ed è un peccato. Infatti «l’Italia è il 2° produttore al mondo, e non c’è possibilità di recuperare sulla Spagna», ma si stanno pericolosamente avvicinando a noi anche altri Paesi, ad esempio del Nord Africa. Con il rischio di perdere quella leadership che abbiamo anche grazie all’importante industria della trasformazione. Alcuni dati presentati nelle slide di Gucci riassumono bene questa incapacità dell’olivicoltura italiana di affrontare la sfida della produzione. Infatti la media della produzione di olio nel decennio 1989-1999 è stata in Italia di oltre 540 mila tonnellate di olio d’oliva, ma nel decennio successivo è calata a 476 mila tonnellate (-12%); e nel periodo tra il 2013 e il 2017 è stata ancora più bassa: 376 mila tonnellate. In Toscana il calo è stato ancora peggiore: da una media di 19 mila tonnellate nel decennio 1989-1999 si è passati a una media di poco superiore a 14 mila e 500 tonnellate (-24%). Questi dati in un contesto in cui nel mondo, parallelamente, la produzione è salita del 38% (e il consumo del 42%). E per quanto riguarda le superfici degli uliveti, la situazione adesso in Italia è che abbiamo 1 milione e 130 mila ettari di superfici olivate e 160 milioni di alberi, di cui il 67% in collina e di cui solo il 37% potenzialmente competitivi (con il restante 63% marginale). Mentre in Toscana gli ettari olivati sono 95 mila e gli alberi 15 milioni. 
Come mai tale calo produttivo mentre nel mondo la produzione cresceva? Il problema principale dell’olivicoltura italiana, ha spiegato Gucci, è che produciamo con impianti obsoleti, cosa che non succede ad esempio in viticoltura o frutticoltura. L’uliveto tradizionale è ancora la tipologia prevalente in Italia e Toscana, anche se ha iniziato a diffondersi un «processo di intensificazione colturale». I nostri oliveti tradizionali sono caratterizzati, fra l’altro, da bassa densità, alberi vecchi, scarsa meccanizzazione. Il che significa bassa produttività (la media è di 1 kg/ 1,2 kg d’olio a pianta), alti costi e anche più problemi fitosanitari. Ma non siamo costretti a restare legati a quel modello tradizionale di uliveto, ha sostenuto Gucci: esistono «soluzioni alternative». Ad esempio oliveti ad alta densità o intensivi, che sono caratterizzati da 350/600 piante a ettaro (secondo alcuni anche 700/800), contro le 150 o poco più degli uliveti tradizionali. Oppure gli impianti ad altissima densità o super intensivi, con ben oltre 1000 piante ad ettaro. Questo aumento del numero delle piante ad ettaro consente di accrescere la produttività. 
Ma la produttività dipende in ultima analisi da «quanta superficie fogliare e gemme potenzialmente a fiore si mettono in un ettaro di uliveto». Quindi contano anche altri fattori, come le chiome degli olivi, che più sono lasciate libere e voluminose, con tecniche di potatura minima, più sono produttive (e diminuiscono anche i costi di potatura). Negli impianti moderni ad alta densità si può arrivare a volumi di chiome e a superfici fogliari esposte ad ettaro molto maggiori che negli uliveti tradizionali. Altri incrementi di produttività sono legati all’utilizzo di metodi meccanici per la raccolta delle olive, che è la principale voce di costo. Ed essi presuppongono altezze di alberi inferiori a certi tetti (4/5 metri). Inoltre molto importante per la produttività è anche l’irrigazione, che serve ad aumentare la produzione, specialmente in zone siccitose, ma può incidere anche sui parametri qualitativi dell’olio prodotto, ad esempio sulla concentrazione dei fenoli. Tutti aspetti e fattori aggiuntivi di produttività su cui la relazione si è soffermata.
«Non in tutto il milione e 130 mila ettari di superfici olivate si può fare l’intensivo o il super intensivo», ha poi precisato Gucci, «ad esempio in Toscana circa un 30% dell’olivicoltura tradizionale potrebbe essere modernizzata, cioè ha le condizioni strutturali per farlo». Ma la sua tesi è che «nelle aree potenzialmente competitive» (stimate a livello nazionale a circa il 37% delle superfici olivate totali) il rinnovo degli oliveti vada fatto. Non si può continuare a produrre su impianti obsoleti. Anche perché, sostiene, il problema della necessità di tutelare il paesaggio olivicolo di alto pregio è sovrastimato: molti degli uliveti che si vogliono preservare «hanno solo 70/80 anni e non sono quindi secolari». Certo ci sono anche casi dal grande valore storico, come certi oliveti nei monti pisani «risalenti all’epoca delle repubbliche marinare», ed esistono zone come la Liguria dove gli uliveti sono tutti giocoforza su terrazzamenti e l’unica cosa che si può fare è «ristrutturare i boschi di olivi non più gestiti», anche per impedire le frane. Ma in generale c’è ampio spazio per rinnovare gli uliveti italiani in modo da renderli più produttivi. Il risultato auspicato da Gucci è una coesistenza di oliveti tradizionali e moderni a seconda dei contesti.
Nel suo breve intervento, il vice presidente di Apot Orlando Pazzagli ha fatto sapere che la società Co.Agri, creata insieme alla cooperativa Terre dell’Etruria allo scopo di favorire la commercializzare dell’olio, è a disposizione di quei produttori di olio che vogliano conferire loro anche solo quote eccedenti della loro produzione, anche se i prezzi sono un po’ inferiori a quelli che forse si riescono a spuntare a Firenze e Siena. «Quest’anno stiamo liquidando a 8 euro – ha aggiunto – ma per quella quota di prodotto in eccedenza che l’anno successivo non ha valore può essere uno sbocco» interessante. «Naturalmente – ha precisato – a dicembre-gennaio gran parte dei giochi per la commercializzazione sono fatti» e comunque non si può aspettare maggio per conferire. 
 
Lorenzo Sandiford

Il 23 marzo a Siena convegno su come “Coltivare l’olivo” organizzato dall’Unione provinciale agricoltori in collaborazione con Santa Chiara Lab dell’Università di Siena e Associazione produttori olivicoli toscani. Interviene Pantaleo Greco, presidente della Sezione nazionale olivicola di Confagricoltura.

Un’occasione per approfondire le più moderne tecniche di coltivazione dell’olivo, esaminarne le criticità e valutare le opportunità nei mercati italiano ed esteri. E’ il convegno “Coltivare l’olivo” che si terrà venerdì 23 marzo, dalle ore 10, al Santa Chiara Lab in via Valdimontone 1 a Siena. Un incontro organizzato dall’Unione provinciale agricoltori (Upa) di Siena in collaborazione con il Santa Chiara Lab dell’Università di Siena e l’Associazione produttori olivicoli toscani.
Dopo i saluti e l’introduzione affidati al presidente di Upa Siena Giuseppe Bicocchi, interverrà Riccardo Gucci del Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e agro-ambientali dell’Università di Pisa sull’evoluzione dei modelli d’impianto e della gestione degli oliveti. Seguirà una relazione sulle principali avversità biotiche e le strategie di controllo ecosostenibile di Bruno Bagnoli del Dibaf dell’Università della Tuscia di Viterbo. Poi, ad illustrare le esigenze dei mercati, sarà il presidente dell’Apot Carlo Gabellieri, mentre successivamente Claudio Rossi, professore di Nutraceutical and Food Chemistry all’Università di Siena, illustrerà le iniziative, i progetti e le innovazioni del Santa Chiara Lab. Dopo il dibattito, conclusioni affidate a Pantaleo Greco, presidente della Sezione nazionale olivicola di Confagricoltura.

Redazione

L’appuntamento sull’olivicoltura inizialmente fissato per il 1° marzo a Lamporecchio (Pistoia) e poi annullato a causa del maltempo si svolgerà domani alle 17 sempre alla cooperativa Montalbano Olio & Vino (in via Giugnano 135).
Si tratta della quarta tappa del ciclo “Pronti all’incontro – per la rinascita dell’olivicoltura toscana”, organizzato dal Consorzio per la tutela dell’Olio extravergine di oliva Toscano Igp. A salire sul ring domani, accompagnati dall'arbitro Fabrizio Filippi, presidente del Consorzio Olio Toscano Igp, saranno Rosanna Matteoli e Raffaello Lippi della Coop. Montalbano, Antonio Belcari di Scienze Agrarie a Firenze, Riccardo Gucci di Scienze Agrarie a Pisa e Giampiero Cresti, direttore della cooperativa Olivicoltori toscani associati (Ota) (con frantoio a Cerbaia, nei pressi di Scandicci). Un’occasione per «analizzare il settore e fornire gli strumenti di un nuovo modello olivicolo». 
«Parlare di olio, olivi e uliveti in Toscana è un compito relativamente facile – dice Fabrizio Filippi nel video su Facebook che introduce l’incontro – […] parlare invece dell’olivicoltura toscana è tutta un’altra cosa. L’olivicoltura toscana è infatti oggi un incredibile paradosso, in cui la domanda cresce, l’offerta cala; la voglia di olio toscano nel mondo cresce, ma la nostra produzione sta drammaticamente calando. Per continuare con i paradossi si potrebbe perfino arrivare a dire che l’olivicoltura in Toscana, quella vera, non esiste. […] L’olivicoltura è il frutto di un’eredità storica che se da una parte ci ha regalato un prodotto che è un’icona internazionale dall’altra ci ha lasciato un sistema arretrato e soprattutto inefficiente, basato su una coltivazione di complemento […] infatti nella fattoria toscana l’ulivo è sempre andato a colonizzare terreni marginali».
 
Redazione

Per Elena Sonnoli: «il Magnifico fa conoscere oli che per l’elevata specificità sono difficili da trovare; positivo che vengano premiati gli oli di qualità del sud Italia; dobbiamo innovare e produrre di più, se no saranno altri a colmare la domanda insoddisfatta del nostro buon olio». Luca Cinelli: «positiva la presenza di oli stranieri, non dobbiamo fossilizzarci; la vittoria della Puglia non sorprende, è con la Toscana una delle patrie dell’olio; necessario piantare più olivi per una produzione intensiva». Pietro Barachini, che ha fatto parte degli assaggiatori del Premio il Magnifico, afferma: «in tutto il mondo sta aumentando la qualità perché sta migliorando la trasformazione, fondamentale puntare sulla biodiversità delle nostre cultivar e riprodurre piante autoctone, da cui potrebbero venir fuori oli sconosciuti» di grande pregio. 

 
Una qualificata rappresentanza del vivaismo olivicolo di Pescia e Valdinievole, il secondo distretto di questo comparto a livello europeo e mondiale, era presente ieri a San Casciano Val di Pesa (Firenze) per la giornata conclusiva del “Premio il Magnifico - European Extra Quality Olive Oil Award”. 
Floraviva ha incontrato e velocemente intervistato, dopo la conclusione della premiazione, Elena Sonnoli, della famiglia proprietaria dei Vivai Attilio Sonnoli di Uzzano, Luca Cinelli, titolare dei Vivai Cinelli di Castellare di Pescia, e Pietro Barachini, proprietario di Spo, Società pesciatina di orticoltura, con sede a Pescia, che ha partecipato alla manifestazione anche in veste di assaggiatore, in quanto professionista della Associazione nazionale assaggiatori professionisti di olio di oliva (Anapoo). 
A tutti e tre sono state poste, separatamente, le stesse domande. Ecco una sintesi delle loro risposte a ciascuna di esse, a cominciare da una valutazione complessiva del Premio il Magnifico.
«E’ una manifestazione importantissima – ha detto Elena Sonnoli - perché pone al centro dell’attenzione la qualità dell’olio ovviamente, e cerca di essere selettiva nella maniera più assoluta. Sta crescendo con il tempo e sempre più produttori si affacciano alla manifestazione proprio per sottolinearne la rilevanza, nel senso che permette di far conoscere oli che normalmente non verremmo a conoscere, soprattutto per l’elevata specificità e per il fatto che molti di questi monocultivar sono purtroppo ancora oggi difficili da reperire sul mercato, come è stato sottolineato dal presidente del Premio più volte». Dello stesso avviso Luca Cinelli, che ha dichiarato: «è una bellissima manifestazione che rappresenta tantissimi oli della nostra Italia. E’ una manifestazione che a mio avviso è utile agli olivicoltori soprattutto per far conoscere le loro produzioni d’eccellenza, dagli oli monovarietali ai blend. Ben venga che di anno in anno si scelga un vincitore rappresentativo di questo movimento». In sintonia pure Pietro Barachini, che ha risposto: «l’ho vista nascere e ho avuto la fortuna di essere formato da uno dei fondatori del Premio, che è Marco Mugelli, con cui ho fatto i primi corsi di assaggiatore. Questo è il mondo che frequento da quindici anni, il mio mondo e la mia passione. Siamo tutti amici, assaggiatori e produttori, che ci ritroviamo una volta all’anno a elogiare quello che secondo noi in assoluto è il migliore olio al mondo in quell’annata».  
Tra gli aspetti interessanti di questa edizione del Premio Il Magnifico c'è stato l’aumento di oli d’oliva stranieri partecipanti, saliti a circa il 20% dei 320 in concorso. Inoltre, quest’anno il primo premio non è andato a un olio toscano, cioè di casa. Come giudicare questi due aspetti? 
Per Elena Sonnoli «l’importante è far vedere che tutta Italia produce oli di qualità elevatissima. A volte noi toscani tendiamo a crederci un po’ i migliori del mondo e pensare che il nostro olio sia quello che vende più di tutti e quindi quello migliore. In realtà spesso non è così. Soprattutto gli oli del sud sono molto profumati, hanno degli aromi bellissimi e sono ricchi in polifenoli: è giusto che vengano premiati, che siano conosciuti non solo a livello nazionale ma anche internazionale, e il Magnifico si pone proprio questo obiettivo». Secondo Luca Cinelli l’aumentata partecipazione di oli stranieri «è una buona apertura, per conoscere e valutare anche gli oli che vengono dall’estero e non fossilizzarsi soltanto sui nostri oli» e il fatto che non abbia vinto un olio toscano «non incide per nulla sulla nostra regione, che è sempre una delle capitali dell’olio d’oliva. Ha vinto la Puglia, che è anch’essa una delle regioni che si contendono il primato degli oli d’oliva».                            Pietro Barachini 15.3.2018 Il Magnif rid 67 percentoPietro Barachini ritiene «molto importante» la maggiore presenza di oli stranieri. «Speriamo di estenderlo poi a tutto il mondo, perché questo dimostra che nel mondo e in Europa la qualità sta aumentando, perché la trasformazione sta migliorando. Ci sono dei professionisti italiani che vanno ad aiutare la trasformazione al di fuori dell’Italia e quindi è per questo motivo che, secondo me, gli olivicoltori italiani devono insistere sulla biodiversità, cioè le grandi varietà di cultivar che abbiamo. Dobbiamo puntare su quello e sulla miglior trasformazione». Pertanto è per lui fondamentale la sezione del premio dedicata alla biodiversità, “Save Biodiversity Award”, vinta quest’anno dall’I&P Grand Cru Musignano dell’azienda agricola Ione Zobbi di Canino (Viterbo). «Sta crescendo la qualità dell’olio nel mondo – ripete -. Ad esempio in Spagna ci sono degli oli eccellenti, in Andalusia ci sono degli oli eccellenti. E questo ci deve far capire che abbiamo delle possibilità con la biodiversità degli olivi autoctoni». E sulla mancata vittoria degli oli di casa dice: «in Toscana ci sono degli oli fantastici. Però devo anche dire che, quest’anno, trovare una coratina con una rotondità del genere era veramente difficile. E quindi gli assaggiatori sono stati colpiti da questo. Ha vinto il migliore» (vedi nostro servizio). 
Infine Floraviva ha chiesto che cosa significa o potrebbe significare questo premio per il vivaismo olivicolo, cioè per i produttori come loro di piante di olivo destinate ai produttori di olio.
«E’ stato importante sentir dire al presidente del premio che questa è una manifestazione che guarda al futuro e che vuole migliorarsi – ha risposto Elena Sonnoli -. Io credo che l’olivicoltura debba rinnovarsi, il momento di stare seduti e guardare continuamente a quello che abbiamo, a quello che siamo, a quello che abbiamo fatto, secondo me, è passato. Dobbiamo incominciare ad evolverci, soprattutto per il fatto che la Toscana e l’Italia in generale sono in difetto di tonnellate d’olio, che mancano. Noi abbiamo la fortuna di avere il mercato, senza avere però la produzione. Questa mancanza di produzione qualcuno la colmerà prima o poi, perché il mondo ha fame d’olio, non solo il bacino del Mediterraneo, ma anche il Giappone, il Sudamerica, che stanno producendo oli di ottima qualità e prima o poi colmeranno la quota di mercato insoddisfatta dall’Italia». A sua volta Luca Cinelli ha affermato: «ho sentito dire che questa manifestazione premia il buon olio ma anche la quantità di buon olio. Quindi se piano piano vogliamo arrivare a fare un buon olio in quantità con le nostre varietà italiane, che sono tantissime, si può anche pensare a qualche cosa di più dell’olivicoltura tradizionale, a una produzione intensiva (non voglio esagerare col super intensivo). Dunque più piante di olivi per ettaro facendo una buona produzione di olio, con raccolte meccanizzate ecc.». Ecco infine la risposta di Pietro Barachini: «ho avuto la fortuna, dodici anni fa, di intraprendere questa strada perché amo l’olio extravergine, e però ci sono delle ricadute anche sul mio lavoro di vivaista olivicolo, perché tutti i giorni ho richieste di riprodurre varietà autoctone. E questo è il mio obiettivo, che ogni anno cerco di incrementare, perché i produttori mi chiedono di riscoprire varietà autoctone che potrebbero dare degli oli che oggi non conosciamo».
 
L.S.

Il premio “il Magnifico” per il miglior olio d’oliva extravergine europeo è stato assegnato ieri a San Casciano (Firenze) a Pietro Intini di Alberobello. Antonio Ricci con la sua Striscia la Notizia è il “Personaggio dell’olio 2018” per la lotta alle contraffazioni e la valorizzazione dei prodotti tipici. Maria Lisa Clodoveo è “Donna dell’olio” per il suo sistema di estrazione a ultrasuoni. Premiati i migliori Toscano Igp e Chianti Classico Dop, il miglior biologico e l’olio con più biofenoli. Premi anche al miglior olio spagnolo e del “Resto d’Europa” (un olio della Croazia). La critica sceglie la qualità di un piccolo lotto di olio proveniente da Benevento. Fra i prescelti di Airo, lo chef giapponese con ristorante a Roma Kotaro Noda.

 
«E’ un olio potente, molto fruttato, amaro e piccante, come insomma i grandi oli di qualità devono essere. E’ un olio monocultivar di Coratina, che è la cultivar regina del territorio pugliese. Noi in Puglia produciamo la maggior parte dell’olio d’oliva d’Italia e questa è una delle cultivar che contribuisce maggiormente».
Così si è espresso ieri a San Casciano Val di Pesa (Firenze), al termine della premiazione del “Magnifico 2018 - European Extra Quality Olive Oil Award” (premio dell’olio europeo di qualità extra o extraqualità, per usare il neologismo lanciato dalla manifestazione in sostituzione di extravergine), Pietro Intini, titolare dell’azienda omonima di Alberobello (celebre patria dei trulli) sull’olio d’oliva con cui si è aggiudicato la prestigiosa vittoria. Un olio che gli organizzatori hanno definito «dal fruttato intenso con spiccati sentori verdi e vegetali, armonioso e persistente al palato» e che, come ha spiegato a Floraviva Pietro Barachini, uno degli assaggiatori professionisti del Premio (membro di Anapoo), si è davvero meritato la vittoria in quanto «la Coratina è una cultivar molto impegnativa, perché è piccante, amara, con un bel tono. Ma quest’olio qui è anche delicato, ed è molto difficile trovare una Coratina con questa delicatezza e con questi profumi». Un premio che il presidente de Il Magnifico Matia Barciulli ha conferito a un olivicoltore «che ha saputo unire la tramandata tradizione familiare - il Frantoio Intini nasce nel 1928 ad Alberobello - alle più moderne innovazioni tecnologiche portando l’azienda ad una crescita qualitativa e di impatto sul mercato oleario, con grandi potenzialità di progresso per il futuro. Un’azienda che quindi rappresenta perfettamente la filosofia del Premio il Magnifico», che guarda sia all’eccellenza organolettica che alla potenzialità di affermarsi commercialmente e può vantare come elemento qualificante il fatto che sugli oli finalisti viene effettuato un controllo di conformità tra il campione presentato in concorso e altri acquistati dalla giuria sul mercato.
Il Magnifico 2018 ha assegnato ieri molti altri premi. Fra questi, il “Personaggio dell’olio 2018” ad Antonio Ricci, l’autore di Striscia la Notizia, per la sua efficace battaglia contro le contraffazioni dell’olio extra vergine d’oliva, ma anche per la divulgazione di esperienze produttive di qualità attraverso una rubrica come “Paesi e paesaggi”. Ricci, ricevendo il premio, ha tra l’altro raccontato, in tono ironico, di essere «un grande frantoiano» e che la sua Liguria «è verticale, per cui solo Messner (il grande alpinista, ndr) può coltivare lì». Da sottolineare anche il “Premio alla Carriera” a Fernando Franci «per la sua lungimiranza, la sua capacità di fare rete e il suo essere precursore dell’olivicoltura moderna» e il “Premio donna dell’olio” a Maria Lisa Clodoveo, che, come ha ricordato lei stessa durante la premiazione, ha creato un sistema di estrazione dell’olio basato sugli ultrasuoni capace di buon effetto meccanico con blando effetto termico e in sostanza di migliorare la resa mantenendo la qualità e il livello dei polifenoli. «E’ un impianto sviluppato con il Politecnico di Bari – ha detto – e chi legge i nostri lavori potrà replicarlo».
Nelle sezioni degli oli della Toscana si sono distinti il Cassiano IGP toscano Colline di Firenze dell’azienda agricola Talente di Toschi Antoniella Federica, che si è aggiudicato il “Toscano IGP il Magnifico Award 2018”, e l'Olinto, Olio Dop Chianti Classico Biologico, cultivar Leccino, della Società Agricola Podere Grassi di Debora e Giacomo Grassi, che ha primeggiato nella categoria “Chianti Classico Dop Award 2018”.
Fra i premi speciali, da segnalare il “Full Value Award 2018” (il premio del pieno valore), una sorta di premio della critica, che è stato conferito ad un olio prodotto in piccola quantità ma di altissima qualità (tecnicamente il miglior campione dell’anno, ma in una quantità non sufficiente per poter essere maggiormente valorizzato): Cuore d'Ortice dell’Azienda Agricola Torre a Oriente di Torrecuso, a circa 20 km da Benevento in Campania. Inoltre il “Best Organic Award 2018” (il miglior biologico), che è stato vinto dal Colle del Polverino di Francesco Saverio Biancheri; e il “Best Biophenols Award”, cioè per l’olio che ha «il maggior numero di biofenoli individuato attraverso le analisi chimiche con metodo HPLC», che è stato il Veneranda 19 della Tenuta Zuppini, incluso fra i 12 finalisti al premio principale vinto da Intini, nonché vincitore del Magnifico 2017. Mentre il “Packaging Award”, conferito grazie ad una giuria di esponenti del mondo design e della comunicazione, è stato assegnato a Emozioni di Olio Cru srl, proveniente dal Trentino-Alto Adige e compreso fra i 12 oli finalisti del concorso principale.
Quest'anno il 20% circa degli oli partecipanti erano stranieri. Il premio prevedeva una sezione “Best of Country Spain 2018” (miglior olio della Spagna), che è stata vinta dal Knolive Epicure di Knolive Oils, che non è rientrato fra i migliori dodici della sezione principale; e una sezione “Rest of Europe Award” (premio Resto d’Europa), che è andata a un olio proveniente dalla Croazia (in finale c’erano due oli croati e uno portoghese): Mate Timbro Istriano di Agrofin D.O.O., anch’esso non rientrato comunque fra le dodici nomination del Magnifico generale.
Anche l’Associazione italiana ristoratori dell’olio (Airo), che promuove l’utilizzo di oli di qualità nei ristoranti italiani svolgendo un ruolo di intermediazione fra produttori e ristoratori, ha dato diversi premi. «L’obiettivo – come ha spiegato Filippo Falugiani - è scegliere produttori in grado di creare prodotti che trasmettono emozioni» tenendo conto della rivoluzione culturale enogastronomica a cui stiamo assistendo negli ultimi anni. Fra le selezioni di Airo: come “Pizzaiolo dell’Olio Airo 2018” Tommaso Vatti de La Pergola di Radicondoli, come “Ristorante dell’Olio Airo 2018” l’Osteria del Tarassaco e Filodolio, come “Chef dell’Olio Airo 2018” lo chef giapponese Kotaro Noda (Bistrot 64 di Roma) e Andrea Perini.
Intervenendo alla cerimonia, il direttore dell’importante rivista tedesca di settore Merum, Andreas Marz, ha detto che «in generale la qualità media degli oli sta migliorando in Italia, ma nel 2017 non c’è stata l’eccellenza assoluta, per cui nessuno ha preso i nostri 3 cuori».
Per saperne di più si può visitare il sito web del premio: http://www.premioilmagnifico.com/
 
Lorenzo Sandiford