Filiera olivo-olio
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Dopo anni di discussioni per creare l'interprofessione dell'olio d'oliva, oggi sembra azzerarsi tutto il lavoro fatto: Unaprol fa marcia indietro dal FOOI (Filiera Olivicola-olearia italiana) per rafforzare la competitività dell'Italia nel settore. E non è la soloa, anche Federolio considera chiusa l'esperienza dell'interprofessione ed esce.
Dopo il primo tentativo, messo in piedi circa dieci anni fa, con l'associazione interprofessionale questa sembrava proprio la volta buona. A far pensare ad un esito positivo era stata la presenza, fin da subito, dell'Unaprol, il principale soggetto che aveva sempre rifiutato di sedersi al tavolo di filiera. Nei giorni scorsi però proprio dall'Unaprol è venuto il nuovo cambio di direzione. «Mai come in questo momento - si legge in una nota del presidente dell'Unaprol, David Granieri - il mondo olivicolo è chiamato ad affrontare tematiche decisive e nuove sfide da cui dipende il futuro del settore, a partire dalla centralità del panel test».
Il riferimento è all'allarme lanciat da alcune organizzazioni di produttori (Cno, Unapol e Unasco seguite dalla stessa Unaprol) del vero e proprio tentativo, sferrato in sede Coi, dai rappresentanti spagnoli al sistema del panel test. Un allarme che non aveva lasciato immaginare divergenze di opinione all'interno della filiera e che per il presidente dell'Unaprol rappresenta l'occasione per far saltare il tavolo. Per affrontare tali tematiche infatti, secondo Granieri «occorre muoversi con rapidità, decisione, superando le lentezze burocratiche e con un presupposto essenziale: l'assoluta centralità delle imprese italiane, uniche per qualità e distintività. Unaprol, il maggiore consorzio olivicolo del Paese, ha deciso di percorrere questa strada al di fuori del FOOI (Filiera Olivicola-olearia Italiana), l'organizzazione che riunisce diverse realtà del settore. L'obiettivo è quello di rafforzare la competitività dell'Italia dell'olio».
Come Unaprol, anche Federolio, la Federazione delle imprese del commercio oleario, decide di fare marcia indietro: «La Federolio considera conclusa la pur rilevante esperienza della F.O.O.I. (Filiera Olivicola-olearia Italiana), l'organizzazione dell'olio d'oliva e delle olive da tavola, che ha visto l'adesione di vari importanti soggetti del comparto olivicolo – oleario italiano. Oggi il lavoro per il rilancio e la tutela della produzione nazionale - ha aggiunto il presidente di Federolio, Francesco Tabano - deve collocarsi anche in una nuova prospettiva organizzativa, che sappia farsi carico delle esigenze di valorizzazione dell'operatività delle imprese italiane, in un quadro di rinnovato impegno per la garanzia della qualità degli oli commercializzati e dunque, in particolare, basato sulla difesa del panel test. La Federolio - ha concluso Tabano - porrà queste ed altre tematiche al centro di una convention che conta di organizzare nei prossimi mesi».
Chi rimane nell'interprofessione dichiara comunque di voler continuare a lavorare con determinazione per una filiera italiana rappresentativa degli interessi di tutti, come ha commentato il presidente del Cno, Gennaro Sicolo. Secondo il presidente del Consorzio olivicolo italiano il lavoro di coinvolgimento di nuovi attori nel tavolo di filiera riguarderà da un lato i rappresentanti della grande distribuzione organizzata, dall'altro l'universo dei consumatori. Sulla stessa lunghezza d'onda il direttore di Assitol, Andrea Carassi, che si augura che l'Interprofessione superi questo momento di impasse e che ritorni alla coesione originaria.
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Domani 1° marzo alle 17 a Lamporecchio (Pistoia), presso le cooperative Montalbano Olio & Vino in via Giugnano 135, si tiene la seconda tappa del ciclo “Pronti all’incontro – per la rinascita dell’olivicoltura toscana”, organizzato dal Consorzio per la tutela dell’Olio extravergine di oliva Toscano Igp.
Obiettivo dell’incontro, rende noto il Consorzio Olio Toscano Igp, «analizzare il settore e fornire gli strumenti di un nuovo modello olivicolo».
Intervengono Rosanna Matteoli, presidente Oleificio cooperativo Montalbano, Raffaello Lippi, presidente Montalbano Agricola Alimentare, l’agronomo Angelo Bo, Giampiero Cresti, consigliere delegato del Consorzio, Riccardo Gucci, professore della facoltà di Scienze agrarie all’Università di Pisa e Maurizio Servili, professore della facoltà di Scienze agrarie dell’Università di Perugia.
A coordinare l’incontro sarà il critico e giornalista enogastronomico Leonardo Romanelli.
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Luca Sani e Luca Brunelli sono per insistere sulle certificazioni e approcciare l’olio come il vino, perché l’olio è un prodotto di grande prestigio e lo conferma il proliferare di corsi di degustazione. Per Sani bisogna puntare solo su varietà autoctone e anche con nuovi impianti «non saremo in grado di affermarci sul piano della quantità in tempi ragionevoli». Pascucci ricorda che l’Igp Toscano è il 20% della produzione regionale per cui la quota può crescere, ma anche che l’olio d’oliva toscano è solo il 2% del nazionale. Scanavino: il primo problema in Italia è produrre più olio, sprecando meno olive e intensificando gli uliveti; parallelamente bisogna aumentare gli oli Dop e Igp, che sono le uniche certificazioni valide e le barriere migliori contro le contraffazioni.
Gli oli extravergini certificati Dop o Igp hanno avuto nel terribile 2016 una tenuta di gran lunga migliore rispetto al resto della produzione d’olio d’oliva italiana. Anzi in molti casi hanno registrato forti progressi. Si pensi all’Olio extravergine Toscano Igp o all’Olio extravergine Chianti classico Dop, per restare alla nostra regione. Però a livello nazionale rappresentano ancora una quota infinitesimale della produzione generale e pure in Toscana, dove la percentuale è assai maggiore, c’è ancora strada da fare (vedi nostro servizio).
Come valutare la situazione e quali politiche olivicole perseguire? Lo abbiamo chiesto ad alcuni esponenti del mondo agricolo e istituzionale che erano presenti all’assemblea regionale della Confederazione italiana agricoltori l’8 febbraio a Firenze. Alcuni sentiti velocemente, altri con un po’ più di calma. Il quadro che viene fuori è di accordo sulla necessità di insistere sulle Indicazioni geografiche (Ig), cioè di allargare la produzione d’olio extravergine certificata. Ma emerge, fra le righe, una differenza di impostazione fra chi spinge anche per politiche tese ad aumentare la quantità di olio prodotto e chi invece si concentrerebbe solo sulla produzione d’alta qualità, dando per inutile la sfida sul terreno quantitativo ai concorrenti internazionali, in primis la Spagna.
«Il problema – ha detto il presidente di Cia Toscana Luca Brunelli - è davvero essere padroni del nostro prodotto, ma essere in grado poi di avere tutti gli strumenti per commercializzarlo. La differenza fra l’olio e il vino è che il vino l’abbiamo fatto capire nel mondo, la nostra cultura e quel tipo di prodotto, con l’olio abbiamo bisogno di crescere in questo senso, abbiamo bisogno di far capire le qualità, far capire il beneficio che il mondo ha nel consumare i nostri prodotti come l’olio e come gli altri. Io credo che la direzione che abbiamo preso in questa regione delle Dop e delle Igp sia una direzione giusta ed è l’unica che ci può permettere di essere ancora competitivi nel mondo» (vedi anche nostro servizio).Anche per il presidente della Commissione agricoltura alla Camera nell’ultima legislatura, Luca Sani, «per semplificare, sull’olio dobbiamo fare come per il vino. Noi siamo ancora abituati a pensare all’olio come una commodity. Non è così. L’olio è un prodotto alimentare di grande prestigio e livello e tutte le sue sfumature piano piano vengono apprezzate dal consumatore. Non è un caso se a fianco ai corsi di sommelier si stanno sviluppando i corsi per degustatori di olio. C’è un’attenzione che cresce e credo che il mercato e i produttori dovrebbero tenerne conto. E quindi anche su questo ci vogliono politiche dei marchi e politiche delle provenienze e delle varietà; naturalmente varietà autoctone, toscane e nazionali. E credo che sarebbe un errore pensare di risolvere il problema della maggiore domanda di olio extravergine di oliva introducendo nelle nostre produzioni varietà che non sono legate ai nostri territori solo per un problema di quantità. Noi dobbiamo puntare a un sistema di qualità sapendo che per come sono le dinamiche l’Italia non sarà mai in grado di soddisfare al proprio fabbisogno interno di olio extravergine di oliva per cui dobbiamo noi pensare all’elemento della qualità e quello della quantità giocarlo su altri piani». Quindi se si cercasse di aumentare anche la quantità andrebbe fatto solo nel rispetto assoluto di qualità e varietà autoctone? «Io la penso così. D’altronde la scelta della quantità l’hanno fatta altri. Noi non saremo mai in grado, anche con una volontà di fare nuovi impianti e quant’altro, di affermarci sul piano della quantità in tempi ragionevoli. Mentre invece possiamo giocare la carta della qualità. C’è una forte domanda di olio extravergine di oliva fra i consumatori e soprattutto sul mercato internazionale: l’Italia può giocare questa carta al pari di altri prodotti».
Il direttore di Cia Toscana Giordano Pascucci dice che bisogna incrementare la quota di oli extravergini certificati: «intanto, se guardiamo i numeri, l’Igp Toscano è circa il 20% della produzione annuale, quindi vuol dire che c’è ancora un margine dell’80%. Noi dobbiamo sempre considerare che il 50% dell’olio che viene prodotto in Toscana va sull’autoconsumo». Se l’Igp in Toscana è già al 20% è molto meglio del dato nazionale. «Assolutamente sì. Noi abbiamo piccoli numeri. Perché la produzione di olio della Toscana è il 2% di quella nazionale. Quindi abbiamo numeri “insignificanti” dal punto di vista produttivo, nel senso che ad esempio non produciamo tanto olio quanto ne produce, ad esempio, la provincia di Bari. Però nel nostro piccolo dimensionamento, con un grande livello qualitativo, abbiamo solo il 20% dell’olio toscano che diventa Igp Toscano, quindi possiamo ancora crescere. Si tratta di coniugare qualità del prodotto, prezzo del prodotto, quindi remunerazione e qui vincere effettivamente la competizione nei mercati, perché se il consumatore è abituato a comprare un extravergine che ritiene di qualità a 2/3 euro, il nostro olio toscano a meno di 8/9/10 euro sugli scaffali non ci arriva. Questo è l’approccio che dobbiamo seguire, perché qui abbiamo l’elemento distintivo della Toscana, il paesaggio, il territorio, che sono valori sui quali continuare a investire».«Noi in Italia facciamo troppo poco olio – esordisce Dino Scanavino, presidente di Cia nazionale -. Ne facciamo meno di quello che consumiamo e ne sprechiamo anche molto, perché non abbiamo le attrezzature, la tecnologia per far diventare olio extravergine tutte le olive che coltiviamo. Quindi coltiviamo molti olivi, ma produciamo poco olio: questo è il problema di base. Le Igp e le Dop sono come per gli altri prodotti l’unico elemento che ci difende davvero dalle contraffazioni, tutto il resto sono chiacchiere. Cioè se noi non abbiamo dei sistemi di certificazione rigorosi che certificano l’origine del prodotto, le etichettature estemporanee e i sistemi di autocertificazione sono tutte cose che commercialmente daranno i loro risultati ma dal punto di vista strutturale non sono in grado di certificare. Quindi le Dop e le Igp segnano la distintività italiana. I produttori ci credono poco […] e quindi questo è un elemento che dobbiamo assumere come impegno politico nel convincere i produttori ad aderire alle Dop e alle Igp e ai loro consorzi affinché una parte maggiore della produzione diventi certificata».
Ma la sfida sulla quantità non è una battaglia persa? «Io non ci credo. Intanto perché parlare della qualità è come parlare della vita, ognuno ha una propria idea su che cosa è la qualità. Quindi bisogna stare attenti quando se ne parla. Comunque io credo che si possa fare buona qualità aumentando di molto la produzione. Perché noi intanto dobbiamo far diventare olio tutte le olive che coltiviamo. Non è una banalità, perché noi coltiviamo una percentuale molto più alta di olive rispetto a quelle che moliamo. Stanno sugli alberi, cadono a terra a Natale. Inoltre dobbiamo mettere in condizione l’olivicoltura italiana di intensificare gli uliveti, non fare il super intensivo ma intensificare e fare più prodotto con olivi la cui raccolta possa essere meccanizzata e dai quali ottenere un olio di qualità, secondo i parametri scientifici riconosciuti e le valutazioni dei degustatori. Noi potremmo fare molto più olio con queste caratteristiche di quello che facciamo ora». Quindi senza prendere cultivar efficienti da fuori? «Per ora io vorrei vedere quello che riusciamo a fare con le piante di olivo che abbiamo in campo e poi misurarci anche con le innovazioni e le introduzioni genetiche, verso le quali noi abbiamo una grande apertura».
Lorenzo Sandiford
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Il Rapporto Ismea-Qualivita ha radiografato risultati e dinamiche degli oli d’oliva con Indicazioni geografiche (Dop e Igp) nell’annus horribilis 2016 (-62% di produzione generale). Spicca il sorpasso al vertice nazionale (a spese del Terra di Bari Dop) del Toscano Igp, che vale oltre 2500 tonnellate, 20 milioni di euro alla produzione, 36 milioni al consumo e 28 milioni di export. Balzi in avanti dei Dop di nicchia Chianti Classico (+83% in tonnellate e +187% in euro sul 2015) e Valli Trapanesi (+98% e +53%). La provincia di Firenze al 1° posto in Italia per l’impatto dell’olio certificato (6,3 milioni di euro).

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La 4^ «articolazione» è auspicata dal Consorzio per la certificazione delle piante di olivo e dall’Associazione Vivai di Pescia perché la filiera olivo-olio ha bisogno, come già succede per la “Viticoltura ed enologia”, di figure tecniche con «competenze specifiche, approfondite ed innovative» in tutti i suoi segmenti per recuperare il terreno perduto rispetto alla Spagna. Intanto è stato richiesto all’Agrario di Pescia più spazio nell’indirizzo “Produzioni e trasformazioni” a materie olivicole quali le tecniche di moltiplicazione, i nuovi metodi intensivi e super intensivi e i moderni impianti di estrazione e di confezionamento. Appello per un piano olivicolo nazionale che dia respiro ai produttori italiani schiacciati dalle logiche della globalizzazione.
«La frammentazione della struttura produttiva e il mancato ammodernamento del settore» hanno pregiudicato da diversi anni il primato quale polo vivaistico olivicolo di Pescia, che è stata scavalcata da aziende spagnole diventate leader del settore. «Nonostante questo, Pescia rimane tutt’oggi al secondo posto a livello mondiale nella produzione vivaistica olivicola, dove riveste un ruolo strategico all’interno della filiera olivicola-olearia; collocandosi a monte del processo di produzione» e influenzando «le scelte e le prestazioni economiche di tutto il settore produttivo». «Appare quindi necessario che il sistema adotti delle figure tecnicamente competenti, così come avvenuto per la filiera della viticoltura ed enologia, in grado di avere competenze specifiche, approfondite ed innovative in tutti i settori […] della filiera olivo-olio», vale a dire nel vivaismo, nella coltivazione, nell’estrazione e nella commercializzazione.