Le vie della competitività agricola fra Ig, distretti, filiere e app
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Luca Sani: le denominazioni e altri sistemi di tracciabilità danno risultati perché il consumatore è esigente; i distretti del cibo ampliano le possibilità dei distretti rurali. Luca Brunelli: le Dop e Igp garantiscono riconoscibilità nei mercati globali. Il presidente di Unioncamere Toscana: più integrazione con l’industria di trasformazione per far crescere le Ig pure in quantità. Per Pascucci: in Toscana possiamo aumentare i prodotti certificati e i loro livelli produttivi; l’integrazione agroindustriale è ok, purché si conservino qualità dei prodotti e remunerazioni degli agricoltori. Scanavino: le Ig sono irrinunciabili soprattutto per regolare le produzioni, ma la svolta commerciale sono le app che raccontano i prodotti e i negozi virtuali tipo “Spesa in campagna” su Amazon; l’integrazione della filiera non deve riguardare solo l’industria della trasformazione e la gdo, ma anche i piccoli artigiani e commercianti.
La competitività agricola è stato uno dei fili conduttori dell’assemblea di Cia Toscana dell’8 febbraio in cui è avvenuto la conferma alla presidenza regionale di Luca Brunelli (vedi nostro articolo). Di competitività ha parlato il rieletto, ma anche l’assessore toscano all’agricoltura Marco Remaschi. Quest’ultimo ha indicato come variabili decisive sulla strada verso un’agricoltura più concorrenziale: un deciso snellimento burocratico, la valorizzazione della qualità delle produzioni agricole, il ricambio generazionale e l’aggregazione attraverso vari strumenti, dai progetti integrati di filiera ai distretti.
Floraviva ha provato a capire con alcuni esponenti di vertice del settore agricolo e non solo, sia a livello istituzionale che fra i rappresentanti della Confederazione italiana agricoltori, quali siano a loro avviso le vie preferenziali per la competitività. A partire dalle Indicazioni geografiche, Dop e Igp, ovviamente, sul cui impatto è uscito nemmeno un mese fa un rapporto Ismea (vedi nostro articolo) che ha dimostrato che vanno meglio del resto dell’agricoltura, anche se in molti casi restano di nicchia, con scarsi volumi. Ma pure per altre vie citate nel corso dall’assemblea, quali i distretti rurali o del cibo, migliore integrazione della filiera e in particolare fra agricoltura e industria della trasformazione, o anche l’uso di nuovi canali promozionali e di vendita come Amazon e le app degli smartphone.
Sentito al volo in una pausa dell’assemblea il neo presidente di Cia Toscana Luca Brunelli ha detto che «affrontiamo le sfide della globalizzazione, vogliamo esserne protagonisti, ma c’è tanto da fare. Abbiamo bisogno di mettere in fila tutti quegli elementi che sono collegati direttamente al nostro reddito agricolo. Le nostre imprese vanno sostenute sul commercio, ma vanno sostenute soprattutto sui servizi. […] Le nostre aziende oggi sono collegate col web nel mondo, ma lo sono solo se hanno una rete. Quindi dobbiamo mettere in condizione le aree rurali e l’agricoltura di essere competitive nel mondo, di avere le stesse condizioni dei nostri competitor, come la Francia e la Germania. L’agricoltura accetta la sfida di avere un impatto ambientale inferiore: lo fa all’interno della Pac, lo fa all’interno di scelte imprenditoriali. Noi sappiamo che l’innovazione oggi ci aiuta in questo: abbiamo un’innovazione possibile e quindi siamo convinti che la competitività delle aziende toscane non è in discussione». Per Brunelli «l’invenzione, la voglia di avere le denominazioni» nasce della volontà dell’agricoltore, «che ha lavorato coi muscoli ma anche di testa. Oggi è una risposta che sul vino ha dato e sta dando notevoli successi, va trasferita quell’esperienza sulle altre realtà. […] Io credo che la direzione che abbiamo preso in questa regione delle Dop e delle Igp sia una direzione che va continuata ed è l’unica che ci permette di essere ancora competitivi nel mondo. La qualità è l’unico elemento che può garantirci la differenziazione nel mondo globale. E nel mondo hanno bisogno di prodotti che si differenziano e che siano garantiti dalla loro qualità di processo, dal percorso che fanno, e anche nella qualità oggettiva che i nostri prodotti hanno chiaramente».
Il presidente di Unioncamere Toscana Riccardo Breda, che nel suo intervento si è soffermato sul nuovo Distretto agroalimentare della Toscana del Sud e ha invocato una migliore integrazione fra agricoltura e trasformazione agroindustriale, ci ha poi detto che tale integrazione è assolutamente compatibile con la tipicità delle Dop e Igp e «anzi forse può far crescere anche le dop e le igp, perché si va bene sul vino, prodotto che ha alzato il suo livello di qualità in Toscana grazie agli investimenti dei grandi produttori che hanno fatto sì che anche i piccoli produttori lavorassero per l’eccellenza e per la qualità. […] Questo deve avvenire anche per l’agroalimentare, cioè le piccole trasformazioni di grande qualità che abbiamo in Toscana possono essere aiutate anche attraverso un percorso di investimento nell’agroindustria e la trasformazione di massa. Noi in Toscana abbiamo un grande prodotto di nicchia, va esportato di più e fatto conoscere meglio all’estero, ma abbiamo bisogno anche della quantità. Questo può servire anche a far sì che in agricoltura si vadano ad attivare quei percorsi di produzione per quello che richiede il mercato della trasformazione. Ciò può portare ricchezza nell’agricoltura, perché permette di avere un accordo diretto, che ad esempio il Distretto agroalimentare della Toscana del Sud prevede, fra il produttore e il trasformatore. Quindi un’agricoltura diversa, più mirata per il settore di trasformazione e più di qualità anche in termini economici». «Bisogna valorizzare quello che abbiamo – ha precisato - non chiuderlo e fare cose diverse». E sui distretti del cibo ha detto che «l’idea è quella di mettere insieme oltre all’agroalimentare anche il turismo e il commercio perché così si riescono a commercializzare i prodotti e i cibi del territorio. Quindi fare filiera nell’ambito del distretto agroalimentare e promuovere attraverso il cibo (che in Toscana, assieme al paesaggio, è conosciuto in tutto il mondo come valore aggiunto) è un’opportunità straordinaria per il settore agricolo. Quindi distretti del cibo insieme ai distretti agroalimentari».
Per Luca Sani, presidente della Commissione agricoltura alla Camera nell’ultima legislatura, il tema delle Ig e di altre forme di valorizzazione dei prodotti agroalimentari va inquadrato così: «noi abbiamo un consumatore sempre più esigente. Non solo nei confronti della qualità del prodotto alimentare, ma anche di come viene prodotto, della zona di provenienza ecc. Da questo punto di vista le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche sono fondamentali. Ma non solo. Anche tutti quei sistemi di tracciabilità, naturalmente riconosciuti per legge, che possono orientare meglio il consumatore nella scelta si vede che stanno dando buoni risultati. Questa è la strada da perseguire. Logicamente ci sono i prodotti rispetto ai marchi riconosciuti dall’Unione europea ma ci sono anche altre cose che possono essere comunque legate a una loro tracciabilità. Il Ministero dell’agricoltura italiano ha scelto la strada dell’etichettatura volontaria per esempio su alcuni prodotti. Latte, cereali, presto sul pomodoro, proprio per seguire e sostenere questa politica e per tutelare le due ali estreme della filiera: il consumatore e l’agricoltore». E che cosa aggiungono i distretti del cibo a quelli rurali che già esistono? «Hanno un panorama e un ventaglio più ampio di applicazione – risponde Sani -. Possono riguardare ad esempio il rapporto fra produzione e distribuzione nella ristorazione collettiva. Un distretto del cibo può nascere, per esempio, attorno alle politiche di una grande città sulla ristorazione collettiva legata a una scelta di qualità e di filiera corta con i produttori agricoli o in un rapporto fra i produttori e ristorazioni in realtà turistiche. Quindi allarga le possibilità di intervento. Per cui mentre sui distretti rurali prevale l’elemento agricolo e rurale sui distretti del cibo c’è una possibilità in più sempre in funzione di un rafforzamento agricolo».
Il direttore di Cia Toscana Giordano Pascucci afferma: «il dato delle denominazioni di origine è un dato positivo, noi numericamente ne abbiamo molte, però a differenza di altre realtà dell’agroalimentare italiano abbiamo dimensioni più piccole. Una denominazione come Grana Padana, Parmigiano Reggiano o prosciutto di Parma ha un dimensionamento produttivo molto importante. Noi, a partire dal prosciutto toscano o dal pecorino toscano, abbiamo una produzione molto più modesta: qualitativamente ci siamo, ma quantitativamente sono dimensioni più modeste. Quindi dobbiamo cercare intanto di fare in modo che la produzione arrivi ad essere certificata: quindi che il pecorino diventi pecorino toscano dop e questo è un primo passo, che è quello di accrescere nella filiera la certificazione e arrivare alla commercializzazione di un prodotto come marchiato dop. E questo è un primo problema che riguarda tutta la filiera: chi trasforma, chi distribuisce e a cascata anche il mondo agricolo e il mondo allevatoriale che deve essere pronto a raccogliere questa opportunità. Dall’altro c’è sicuramente un problema di ampliamento dei livelli produttivi di queste denominazioni. E qui scontiamo un dimensionamento produttivo che è molto piccolo». E sulla maggiore integrazione con l’industria della trasformazione è d’accordo con Breda? «Sì, è una posizione anche nostra, che è quella di mettere in maggiore connessione il mondo della produzione con quello della trasformazione agroalimentare, laddove l’agroalimentare ha una marcia in più dal punto di vista della penetrazione dei mercati e dell’export, e quindi della capacità competitiva, se noi riusciamo a mettere in connessione tutto l’agroalimentare che si può produrre in Toscana, sicuramente è un bel risultato. Poi si pongono le questioni della qualità del prodotto, che in parte c’è in parte no, della remunerazione del prodotto e della distribuzione della catena del valore. Però come idea è molto interessante».
Infine il presidente di Cia nazionale Dino Scanavino: «Le dop e le igp sono ad oggi lo strumento più sicuro per certificare la produzione, cioè l’origine della materia prima, l’attinenza ai disciplinari di produzione e lo scorrere ordinato dei processi che vanno dalla produzione della materia prima fino al momento del consumo. Quindi è uno strumento irrinunciabile per affermare la distintività delle produzioni tipiche italiane, in tutte le regioni d’Italia. Il fatto che vi siano dop con piccole produzioni è un problema nazionale antico. E’ un problema che però a volte non incide sulla redditività dei produttori che stanno all’interno delle dop. Ci sono dop di formaggi che sono estese a 8-10-20 comuni che però danno valore aggiunto alla produzione e quindi per noi va bene». «Oggi – ha aggiunto però Scanavino - noi abbiamo degli strumenti innovativi che mettono in contatto i consumatori con i produttori attraverso applicazioni informatiche a distanza che tramite barcode o smartphone raccontano che cosa c’è in un prodotto, la faccia del produttore, ecc. Questi strumenti non vanno sottovalutati, perché io non dico che possono sostituire le Dop e le Igp ma possono enfatizzarne il valore, lasciando il sistema di certificazione più come strumento per regolare la produzione e spostando più su elementi emozionali il rapporto con i consumatori». Quindi puntare di più sulla digitalizzazione? «Esatto». Anche con Amazon? «Anche con Amazon. Noi peraltro lavoriamo già con Amazon perché abbiamo un accordo per la “Spesa in campagna”, cioè abbiamo un negozio virtuale dei piccoli produttori di “Spesa in campagna” sulla piattaforma Amazon. Noi non abbiamo nessun problema ad affermare che il commercio telematico sarà il futuro […] Si tratta di trovare anche all’interno di questi strumenti dei contenitori che esaltino la tipicità, mettano in evidenza il produttore e il prodotto, quello che il produttore ha fatto per fare un prodotto di quella qualità». Infine, sulla maggiore integrazione con l’industria della trasformazione Scanavino dice: «credo in questa strada, ma penso che ci sia un elemento di complessità da approfondire. Io credo che gli agricoltori, gli artigiani e i commercianti, non la grande distribuzione, debbano trovare una forma per aumentare il loro potere contrattuale all’interno della filiera agroindustriale. Cioè la filiera agroindustriale non è fatta solo da produttori di materia prima – trasformatori – grande distribuzione. Ci sono più soggetti, che a volte sfuggono anche alla statistica. Se noi gli agricoltori, gli artigiani e i piccoli commercianti provassimo a strutturare un piano di collaborazione che sulla filiera agroindustriale ci veda uniti, noi avremmo più forza rispetto all’agroindustria». Quindi più attenzione a tutta la filiera? «Sì, perché noi dobbiamo rafforzare il nostro potere contrattuale all’interno di essa, perché se no la filiera agroindustriale andrà pure bene, i prodotti saranno buoni, le Dop terranno, ma noi guadagneremo ancora poco».
Lorenzo Sandiford