Dop e Igp fin qui da record, ma la valorizzazione agroalimentare si evolve
-
in Servizi
Nel Rapporto 2017 Ismea-Qualivita sulle Dop e Igp i record e gli effetti economici del made in Italy agroalimentare certificato. Ma in due incontri all’Accademia dei Georgofili i riflettori sulle evoluzioni delle IG e su nuove vie per la valorizzazione: menzioni territoriali più circoscritte per i vini, il “prodotto di montagna”, i “distretti del cibo”, la caratterizzazione nutraceutica.
Il “Rapporto 2017 Ismea-Qualivita sulle produzioni agroalimentari e vitivinicole italiane Dop, Igp e Stg”, presentato due settimane fa, ha ribadito con chiarezza il ruolo del sistema delle indicazioni geografiche (IG), in cui l’Italia ha il primato mondiale con 818 riconoscimenti e la Toscana il primo posto nazionale con 91, quale efficacissimo mezzo di valorizzazione dei nostri prodotti enogastronomici. Ma non ci si può cullare sugli allori, perché altri Paesi stanno puntando su approcci più mirati e innovativi entro quel sistema, e perché si stanno sviluppando nuove vie e strumenti per la valorizzazione agroalimentare del made in Italy, anche al di fuori dell’universo IG.
Questo almeno è il quadro della situazione emerso nei due incontri organizzati nei giorni scorsi dall’Accademia dei Georgofili di Firenze: nel quarto appuntamento del progetto “I territori della Toscana e i loro prodotti” (25 gennaio), con riferimento in particolare alle relazioni del consigliere regionale Marco Niccolai (che si è soffermato sui distretti del cibo), del docente di Economia agraria dell’Università di Firenze Giovanni Belletti (La valorizzazione collettiva dei prodotti tipici: opportunità e problematiche) e della direttrice del Centro Nutrafood - Nutraceutica e alimentazione per la salute dell’Università di Pisa Manuela Giovannetti (Caratterizzazione salutistica dei prodotti tipici per la loro valorizzazione); e nell’incontro sul tema “Denominazioni, cultura territoriale e qualità dei vini italiani” con lo storico Zeffiro Ciuffoletti, che ha introdotto l’argomento, Bernardo Conticelli (Uno sguardo alla Francia e all’Europa) e Piero Tesi per le considerazioni finali (31 gennaio).
Il dato del Rapporto 2017 Ismea-Qualivita che riassume meglio l’efficacia del sistema Dop e Igp, come messo in evidenza sul Sole 24 Ore del 23 gennaio 2018, è il +140% dell’export di questi prodotti certificati nei dieci anni dal 2007 al 2017, un tasso di crescita molto più alto rispetto al già ottimo risultato delle esportazioni agroalimentari complessive (sulle quali proprio recentemente il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina ha annunciato che nei primi 11 mesi del 2017 si è arrivati a quota 37,6 miliardi di euro, +7% sul 2016). Ma ecco una sintesi del Rapporto Ismea sull’universo IG: «il comparto esprime i risultati più alti di sempre anche sui valori produttivi, con 14,8 miliardi di valore alla produzione, e 8,4 miliardi di valore all'export. Dati che testimoniano una crescita del +6% su base annua e un aumento dei consumi nella gdo del +5,6% per le vendite Food a peso fisso e del +1,8% per il Vino. Il settore Food, che nel 2016 conta 83.695 operatori (+5% sul 2015), vale 6,6 miliardi di euro alla produzione e 13,6 miliardi al consumo, con una crescita del +3% sul 2015, con l'export che continua a crescere (+4,4%) e un trend che nella Grande Distribuzione supera il +5,6% per il secondo anno consecutivo. Il comparto Wine - oltre 3 miliardi di bottiglie - vale 8,2 miliardi di euro alla produzione con una crescita del +7,8% e sfiora i 5 miliardi di valore all'export (+6,2%)». Questi risultati, ha dichiarato il direttore generale di Ismea Raffaele Borriello, «confermano il successo di un modello produttivo tipicamente italiano che fa perno sulla qualità, sulla distintività e sulla valorizzazione dei prodotti tipici e dei saperi locali. L'apprezzamento sui mercati esteri, principale volano di sviluppo nel nostro sistema delle Indicazioni Geografiche, cresce a ritmo esponenziale». (vedi Ismea)
Come ha sottolineato Giovanni Belletti il 25 gennaio all’Accademia dei Georgofili, spiegando a Floraviva il “circolo virtuoso della valorizzazione”, «le indicazioni geografiche e gli strumenti di identificazione della qualità collettivi sono molto importanti, perché sono un elemento di condivisione di regole: dietro una indicazione geografica o una Dop o un marchio collettivo geografico c’è un sistema di regole che i produttori condividono, il quale è importante per evitare forme di concorrenza non corretta e far sì che tutti seguano le metodiche tradizionali o comunque concordate. Sono ovviamente fondamentali anche per i consumatori, che si devono sentire garantiti dal segno di qualità: non c’è un segno di qualità efficace se non c’è una garanzia della rispondenza del prodotto alle regole». Belletti si è poi soffermato su due novità per l’Italia in materia di valorizzazione agroalimentare: il marchio “prodotto di montagna” e i “distretti del cibo”. In particolare sul primo ha detto che «è una forma di etichetta che è stata istituita dall’Unione europea ormai da qualche anno, ma che in Italia è diventata operativa dall’anno scorso. Questa dizione può essere utilizzata dai produttori che garantiscano attraverso un sistema interno di tracciabilità la provenienza delle materie prime da un’area classificata come montana secondo le normative europee. E’ una menzione aggiuntiva di qualità, non va confusa con Dop o Igp, ma può accompagnare un marchio territoriale». Ma avrà un valore aggiunto? «Sì – ha risposto Belletti - perché è stato dimostrato da studi dell’Unione europea, prima di procedere all’istituzione del marchio, che il consumatore europeo (e anche quello italiano) riconosce un di più ai prodotti di montagna, che sono percepiti come più sani, più autentici e per questo ne è stato regolato l’uso e non può essere più usata tale dizione al di fuori dello schema comunitario». Come ha twittato il ministro Martina il 2 febbraio scorso, il marchio “prodotto di montagna” sarà lanciato entro la fine del mese.
Riguardo ai distretti del cibo, Belletti ha ricordato che «il distretto del cibo è una nuova forma di organizzazione territoriale promossa recentemente attraverso disposizioni nazionali, che si accompagna a quella dei distretti rurali e dei distretti agroalimentari di qualità, che però sposta di più l’attenzione dal tema della produzione in quanto tale al tema del funzionamento del sistema agroalimentare locale». Sui distretti del cibo Marco Niccolai ha detto che sono «il riconoscimento di un’esperienza che in Toscana c’è già: quella dei distretti rurali» e che «l’intervento del Governo è importante perché riconosce il distretto come capacità dell’insieme di un settore, sia la produzione sia la trasformazione, di fare rete, e riconosce anche un finanziamento». Di quanto si tratta? Come è spiegato nel comunicato del Ministero delle politiche agricole (Mipaaf) del 22 gennaio sono «5 milioni di euro per il 2018 e 10 milioni di euro a decorrere dal 2019». Il Mipaaf ricorda che «il riconoscimento dei Distretti viene affidato alle Regioni e alle Province autonome che provvedono a comunicarlo al Mipaaf presso il quale è istituito il Registro nazionale dei Distretti del Cibo, disponibile sul sito del Ministero».
Un’ulteriore forma di valorizzazione aggiuntiva dei prodotti agroalimentari, che fuoriesce dai confini delle IG, è la caratterizzazione dei loro valori nutraceutici, come ha spiegato sempre il 25 gennaio presso i Georgofili Manuela Giovannetti, docente di Microbiologia agraria e alimentare, oltre che direttore del Centro interdipartimentale “Nutrafood” dell’Università di Pisa. Manuela Giovannetti ha illustrato in che cosa consiste la nutraceutica (che studia le sostanze con effetti benefici sulla salute) e quale può essere il suo valore aggiunto nella promozione dei prodotti tipici, esaminando in particolare il caso del mirtillo della montagna pistoiese e poi lanciando la proposta di fare una caratterizzazione nutraceutica del fagiolo di Sorana, di cui «non sappiamo il valore antiossidante né il contenuto di polifenoli» (vedi nostro articolo).
Il 31 gennaio, invece, nell’affrontare le denominazioni di origine e la qualità dei vini in Italia e nel resto d’Europa, a cominciare da Francia e Spagna, i relatori invitati dall’Accademia dei Georgofili hanno perorato la causa di ancorare sempre di più i nostri vini certificati, come ha detto Piero Tesi, a «indicazioni territoriali specifiche in funzione dell’ambiente di produzione, fino ad arrivare alla denominazione aziendale». «Viviamo un mercato del vino in continua evoluzione – ha detto il prof. Zeffiro Ciuffoletti -, noi siamo ormai diventati da esattamente 10 anni i maggiori produttori del mondo come esportatori, però nello stesso tempo abbiamo un ritorno monetario sul vino che vendiamo all’estero inferiore a quello della Francia. Qual è il problema? Il problema è che i vini francesi vengono pagati di più». «Il motivo, detto in soldoni, - ha aggiunto Ciuffoletti - è che sono più conosciuti. A volte però questo non è soltanto legato alla qualità, ma al fatto che la Francia è stata capace di consolidare nel tempo le sue posizioni sui mercati mondiali, e anche a una definizione migliore dei vini francesi, che sono sempre di più a taglia stretta, con zone di produzione ben circoscritte e differenziate. E la stessa strada la stanno prendendo gli spagnoli».
La quantificazione di questo gap competitivo fra Italia e Francia l’ha fornita al cronista di Floraviva Bernardo Conticelli al termine dell’incontro: «sull’imbottigliato secco mi sembra che siamo sui 3 euro e 20 l’Italia e sui 5,30 la Francia; mentre sulle bollicine siamo a 3 euro e qualcosa l’Italia e 18,50 euro la Francia con lo Champagne». Una differenza di prezzo che, almeno escludendo le bollicine, non rispecchia una differenza di qualità, per Conticelli, che afferma: «sulla fascia dei vini di prezzo medio l’Italia è nettamente superiore in qualità alla Francia» e la differenza di prezzo fra vini francesi e italiani dipende dal «valore aggiunto che la Francia riesce a trasmettere». Evidentemente i francesi si muovono meglio sul mercato e anche nelle politiche relative alle denominazioni di origine. «La Francia nel 2008 quando c’è stato a livello europeo il passaggio del vino alle denominazioni di origine Dop e Igp – ha spiegato Conticelli - aveva un numero di denominazioni più o meno simile al nostro, ma l’ha rivisto completamente, per cui è scesa da oltre 400 Aoc (che sono le nostre doc e docg) a 377 e soprattutto sulle Igt ha fatto un grandissimo lavoro di rielaborazione (alcune sono state eliminate, alcune sono state raggruppate) per cui si è passati da 150 a 75 Igt (che sono poi chiamate Igp in Francia). Sempre di più i consumatori sui mercati internazionali, almeno i consumatori un pochino più avanzati, ricercano il fascino della provenienza, dell’origine del vino nel dettaglio più grande possibile». Cosa dovremmo fare in Italia per cogliere questo trend e circoscrivere gli ambiti territoriali sull’esempio francese? «Gli strumenti sono tanti – ha risposto Conticelli - e chiaramente sono in seno ai consorzi di tutela […] Ad esempio il Chianti classico potrebbe rimandare a menzioni territoriali quali possono essere i Comuni principali del territorio (Panzano, Greve, Castellina in Chianti, ecc.) che hanno oggettivamente delle differenziazioni nelle tipologie di vino prodotto». Dunque delle menzioni geografiche aggiuntive che finiscano in etichetta e riportino il consumatore a determinate zone, «ovviamente zone di maggior prestigio».
Lorenzo Sandiford