Ispirazioni

Un progetto innovativo dell’importante studio londinese del progettista Thomas Heatherwick ha portato 1000 alberi in uno dei quartieri più densamente vissuti di Shangai, e sono destinati ad aumentare e non solo in Cina…

Su un’ansa del fiume Suzhou Creek, a Shanghai, a dicembre 2021 è stato inaugurato un edificio dall’aspetto fuori dal comune, come una versione moderna dei giardini pensili di Babilonia. Due “montagne” artificiali ricoperte di alberi e altri elementi vegetali che, in realtà, sono parte di un edificio multifunzionale. Commissionato dall’holding Tian an China, il progetto è partito nel 2015 ed è destinato a estendersi ulteriormente.
Lo studio di Thomas Heatherwick firma il progetto “1000 Trees” che ora conta la presenza proprio di 1000 alberi e 250.000 mila piante, con un incredibile impatto green sul paesaggio cittadino. L’obiettivo dello studio Heatherwick è creare spazi confortevoli per chi vive e lavora in questo quartiere.
Il sito è legato al territorio grazie alla presenza di un parco pubblico e di un distretto artistico, “1000 Trees” è un punto d’incontro e dialogo tra arte, natura e architettura.

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Però gli alberi non sono una novità bensì sono essenziali alla vita, Thomas Heatherwick afferma in proposito: “Penso che al mondo dell'architettura possa piacere pensare che le cose siano mode passeggere, ma abbiamo bisogno di acqua, di aria, di alberi”.
Heatherwick ha sostenuto che alberi e piante devono essere sempre di più nelle città e che i principali sviluppi offrono l'opportunità di aggiungere più verde nelle aree urbane.
"Vai ovunque, dove sono costruiti nuovi edifici, e non c'è un equilibrio sufficiente con il mondo naturale".
Il prestigioso studio Heatherwick ha sede a Londra e vanta una squadra di 200 collaboratori, che si dedicano a rendere il mondo un posto migliore. La loro priorità è realizzare a progetti con un impatto sociale positivo, soprattutto nel loro lavoro non c’è nessun dogma legato al design, piuttosto la ricerca di soluzioni adatte alla realtà, che abbiano come guida l’esperienza umana.
In molti dei loro progetti cercano di integrare il più possibile la natura e, secondo loro, sarebbe utile che sempre più designer e architetti bilanciassero il proprio lavoro con il mondo naturale. L’integrazione degli alberi negli edifici è diventata sempre più popolare da quando Stefano Boeri, nel 2014, ha completato il suo grattacielo “Bosco Verticale” a Milano.

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Qualcuno ha messo in dubbio la pratica di integrare gli alberi negli edifici, definendola semplicemente decorativa. In un articolo su Dezeen l’accademico Philip Oldfield afferma che il carbonio presente nelle fioriere in cemento del progetto “1000 Trees” è superiore alla quantità di carbonio che gli alberi avrebbero assorbito. Mentre Heatherwick sostiene che questa pratica è qualcosa che rinnova e rinfresca, qualcosa che i pannelli in alluminio, i sigillanti siliconici e le grandi lastre di vetro non fanno.

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Per attirare l’attenzione su un’iniziativa per piantare nuovi alberi nel Regno Unito, lo Studio Heatherwick ha progettato “L’albero degli Alberi”, una scultura a forma di albero di 21 metri, installato a Buckingham Palace. La campagna Queen's Green Canopy, iniziata in occasione dei 70 anni di regno della regina, ha visto oltre un milione di alberi piantati nel Regno Unito da ottobre.
"Il nostro compito era di comunicare questa straordinaria iniziativa, mostrando che gli alberi sono i supereroi delle nostre città e paesi", ha affermato Heatherwick.
"E ogni architetto e progettista sa che le nostre città e paesi sarebbero esperienze estremamente impoverite se non supportiamo l'equilibrio dell'ambiente costruito con l'ambiente naturale", ha continuato.
"E quindi qualcosa che sta cercando di far luce su questa importante questione e vale la pena farlo."

Rubrica a cura di Anne Claire Budin

E’ praticata ancora oggi la raccolta delle olive da famiglie e piccole aziende agricole, un lavoro che negli ultimi decenni ha visto delle migliorie ma che resta sempre faticoso. Uno sguardo nostalgico ma non troppo al suo passato.

Se ci fermiamo a osservare con attenzione le vecchie fotografie della raccolta delle olive, ci accorgiamo di quante informazioni possono darci riguardo il modo di raccolta e sugli usi e costumi legati al territorio e alla società contadina.
Oggi abbiamo le reti, le piante di ulivo sono quasi sempre basse e ben potate, esistono turboventilatori e altri attrezzi meccanici e manuali che ne facilitano la raccolta e, soprattutto, è impossibile vedere, tra muri a secco e viottoli, intere comunità lavorare collettivamente intente alla raccolta di questo frutto prezioso.

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Le piante in passato erano molto più alte, così come le scale di legno impiegate che, a guardarle in queste foto in bianco e nero, fanno una certa impressione. I terreni sottostanti gli olivi erano puliti o meglio lavorati, soprattutto in pianura ma, anche negli uliveti collinari, venivano dissodati se non usati come pascolo per gli animali, ma quello che attira di più l’attenzione è il numero di persone che in passato era coinvolto in questa attività legata a un breve periodo dell’anno. Si capisce come fosse un lavoro molto più duro di quello che è oggi, come tutti i lavori dei campi ma che vedeva la partecipazione di tutta la comunità. I braccianti agricoli, tradizionalmente sottopagati, erano affiancati da tantissime donne. La manodopera femminile, che qualcuno ha definito un’avanguardia (ma facciamo finta di non aver capito!), non era certo risparmiata dalla fatica: si occupavano di preparare e sistemare i grandi teli di canapa, facevano la raccolta manuale delle olive, trasportavano pesanti sacchi di canapa camminando su terreni malfermi.
In pochi anni la società contadina si è dissolta, assorbita dalla “vita moderna”, la fabbrica, le periferie, abitudini diverse. Restare nei campi o tra gli ulivi non esercitava molta attrattiva sui giovani, ancora oggi il malessere è una costante per chi lavora nell’agricoltura, dove non mancano gesti estremi spinti da isolamento, problemi finanziari e mancati riconoscimenti. Nonostante questo non si può fare a meno di provare un senso di rammarico e nostalgia per quei tempi e per quella cultura, ormai scomparsa, che è stata la base della nostra società e che, in qualche modo, soddisfa ancora un nostro bisogno primario come l’alimentazione.

Rubrica a cura di Anne Claire Budin

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Da Singapore arriva un apprezzabile esempio di progettazione biofila, l’hotel Garden Wing situato a Shangri-la, un edificio con una presenza rigogliosa di verde, balconi bordati di piante in ogni camera e una parete vivente nella lobby lounge alta circa 10 metri, costruita con 350 kg di pietre di basalto ricoperte con muschio e vari tipi di felci. Un’atmosfera da giungla, arricchita dall’istallazione artistica del progettista giapponese Hirotoshi Sawada: una cascata di migliaia di foglie stilizzate.

I designer del 21° secolo si trovano davanti a due sfide urgenti: progettare spazi pensando alla sostenibilità e al benessere umano. Questo tipo di progettista potrebbe svolgere un ruolo cruciale nel trasformare il nostro ambiente costruendo spazi più sostenibili e più sani.

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Biofilia si traduce letteralmente in amore per la vita, le cose viventi e la natura; concetto reso popolare dal biologo e naturalista americano Edward O. Wiley nel suo libro del 1984 “Biophilia”. Wiley sosteneva che gli esseri umani hanno un bisogno intrinseco di connettersi con la natura e altre forme biotiche, questo a causa della dipendenza evolutiva da essa, per la realizzazione personale e la sopravvivenza. Inoltre il design biofilo può influire positivamente sulla nostra vita, gli elementi naturali hanno il potere di ridurre lo stress e aumentare la creatività.

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Partendo da questa ipotesi il design biofilo insegue una riconnessione con la natura e cerca di portare l’esterno negli interni. Incorpora elementi naturali, forme, trame e altre caratteristiche dell’ambiente naturale all’interno degli spazi pubblici, nell’architettura e nella progettazione degli interni.
Esiste una differenza tra architettura verde/sostenibile e design biofilo. L’architettura green riguarda la riduzione al minimo dell’impatto sull’ambiente causato dal costruito, mentre il design biofilo enfatizza il collegamento con la natura. Lo scenario preferibile è quando vanno di pari passo, completandosi a vicenda.
La progettazione biofila può essere avviata a livello di comunità, singolo edificio o piccolo progetto; oltre alla presenza di piante e vegetazione deve includere funzionalità come luce naturale e ventilazione, utilizzare materiali naturali, imitare il più possibile forme e geometrie naturali, mostrare vedute della natura attraverso finestre o immagini, usare colori e toni della terra, adoperare in modo strategico elementi come vegetazione e acqua e utilizzare pareti e tetti verdi.

Rubrica a cura di Anne Claire Budin

Come un miraggio, trasparente di giorno e luminoso di notte, Lucid Stead da installazione temporanea è diventa un’attrazione iconica.


Una casa o meglio un capanno in disuso, esternamente rivestito con assi di legno alternate a specchi, che creano un surreale gioco di luce e riflessi, il suo nome è Lucid Stead. Il lavoro dell’artista non ha cambiato né le dimensioni né la forma del capanno, il suo intervento è avvenuto tramite gli specchi, le luci a LED e a equipaggiamenti elettronici non visibili.
Se di giorno è trasparente e sembra fluttuare come un miraggio sulle dune, la sera Lucid Stead si accende dei colori che emergono, come forme geometriche oniriche, nel buio del deserto. I bagliori cromatici illuminano la notte del “Joshua Tree National Park” in California, come mai era accaduto prima!
Phillip K Smith ha iniziato a coltivare l’idea di quest’opera senza troppe attese. Pensava di mantenerla per qualche giorno, mostrarla a visitatori occasionali, invece… Nel giro di due settimane i visitatori sono stati più di 400, un'attrazione fenomenale che ha suscitato curiosità e attirato l’attenzione dei media internazionali.
In meno di un mese Lucid Stead, la casa trasparente, è diventata icona, fenomeno, evento.

Rubrica a cura di Anne Claire Budin

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Un penitenziario su un arido scoglio può diventare un florido giardino e un’icona pop? Sì, se parliamo di Alcatraz…

Una roccia desolata e gigantesca nella baia di San Francisco è oggi una meta turistica e un paradiso per l’orticoltura. Le dalie viola in piena fioritura ondeggiano contro un cielo color zeffiro, siamo sull’isola di Alcatraz, famosa per essere stata la prigione di massima sicurezza che ha “ospitato” Al Capone e da cui in pochi sono riusciti a fuggire. Una parte di questo grande e inospitale scoglio è legato al carcere, l’altra parte è un giardino storico che prospera e resiste nella nebbiosa Baia di San Francisco.
“The Rock” in origine era un’imponente scogliera di arenaria a un miglio dalla costa. Dove i giorni di sole sono gloriosi ma, tutti gli altri elementi naturali, sono volubili e spietati. Venti che soffiano a velocità incredibili e nebbia che spesso inghiotte l'isola per lunghi periodi. Eppure in questo roccioso luogo di punizione, per quasi 150 anni, le rose sono sbocciate.
Nel 1860 Alcatraz servì come prigione militare di minima sicurezza, tutti i materiali dovevano essere portati con barche e chiatte, compresi materiali da costruzione, terra, acqua e piante; questo luogo selvaggio, in cui solo gli uccelli andavano a nidificare, dopo pochi anni vide nascere i suoi giardini. La trasformazione da paesaggio arido a luogo più intimo e accogliente fu iniziata dalle donne al seguito dei primi soldati, che qui si installarono sul finire dell’ottocento. Su questo “scoglio” in mezzo al mare tutto cresceva in modo rigoglioso, le persone indossavano pesanti pellicce ma i gerani scarlatti e le fucsie prosperavano.  Così, quando l’isola divenne sede della prigione militare, i detenuti furono incoraggiati ad abbellire ulteriormente l’isola, partendo dai giardini. Era un’opportunità molto importante per il loro morale e quello delle guardie: i giardini erano un luogo di positività, dove creare vita e bellezza in un ambiente arido, aspro ed esigente. Solo le piante da giardino più resistenti erano in grado di sopravvivere con le poche cure che potevano ricevere. Questo continuò anche quando Alcatraz divenne il penitenziario di massima sicurezza sotto il Federal Bureau of Prisons dal 1934 al 1963. Fare giardinaggio dava soddisfazioni e opportunità di formazione professionale ai reclusi, oltre che benefici riparativi. Grazie ai giardini di Alcatraz si ha uno dei primi esempi di terapia orticola nelle carceri, una pratica che è ancora nei programmi di san Quentin in California e Rikers a New York. Nello stesso tempo l’isola diventa un’icona rock e pop, grazie anche alla sua fama sfruttata da Hollywood. Luogo isolato, uomini difficili, splendidi giardini, con questi ingredienti non sorprende che oggi sia un hotspot turistico di successo.

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Quando anche il penitenziario di massima sicurezza fu chiuso, l’isola fu abbandonata, così come i suoi giardini per quattro decenni. Uccelli ed erbacce ebbero di nuovo il sopravvento finché, nel 2003, il Garden Conservancy e il Golden Gate National Parks Conservancy hanno dato il via a una collaborazione con il National Parks Service per riportare i giardini al loro splendore e mantenerli come attrattiva dell’isola. Anche se la visita al penitenziario con le sue celle resta il motivo principale per cui si visita l’isola, senza dubbio i suoi giardini stupiscono e conquistano i visitatori. Oltre 200 specie sono sopravvissute agli anni di abbandono. Erano presenti 15 specie di rose, oltre a bulbi, fichi e piante grasse. Sul ventoso lato ovest l’elenco delle piante sopravvissute include: Echium candicans, Agave americana, Coprosma repens, Crassula argentea, Agapanthus orientalis, Aloe saponaria, Sedum praealtum, Chasmanthe, Aeonium arboreum, Drosanthemum. Sul lato est invece più calmo: Fucsia magellanica, Fucsia "Rosa di Castiglia", vari iris barbuti, Crocosmia, Watsonia, Hebe, Centranthus, Cistus, Yucca e Pelargonium. Nel 1989 il coltivatore di rose George Lowery trovò una rosa di colore rosso intenso, creduta estinta, nella casa di un guardiano, la rosa fu identificata come “Bardou Job”, una tra le più rare. Un’altra particolarità di questo luogo è il compostaggio, al fine di non esaurire lo spazio per mettere nuova vegetazione, per riciclare la maggior parte della biomassa, questo rende i terreni sempre più capaci di trattenere l’umidità. Il compost di Alcatraz ha vinto premi alla Marin County Fair e l’unico vegetale che non è usato come concime è l’eucalipto perché tossico.

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Questo luogo in cui tante persone, con storie diverse e spesso complicate alle spalle e senza esperienza nel settore, hanno dato vita a splendidi giardini, dove l’iris barbuto sopravvive al vento e alla nebbia, è un esempio di resistenza e un ecosistema unico e specifico. Una storia singolare che abbraccia reclusione e liberazione, bellezza e disperazione e, soprattutto sopravvivenza. Benvenuti nei giardini di Alcatraz.

Rubrica a cura di Anne Claire Budin

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