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Jean-Martin Fortier ha iniziato con un piccolo orto per arrivare alla sua micro-azienda orticola che gli consente di avere un reddito, coltivando biologico.
Ovunque, nel mondo c’è bisogno di coltivazioni sane e locali che, allontanandosi dall’agricoltura industriale, tengano lontano anche tutti i problemi a essa legati: pesticidi, OGM, malattie… Nel suo libro “Coltivare con Successo” ci racconta la sua esperienza e ci spiega cosa dobbiamo fare per provare ad avere il nostro orto bio e, magari un reddito.
Jean-Martin e la sua compagna hanno iniziato la loro carriera con 1000 mq e vendendo ortaggi ai mercati contadini, attraverso il progetto CSA. L’orto era in affitto e così hanno limitato le spese in modo da coprire i costi e mettere qualcosa da parte per investire e fare qualche viaggio. Poi arrivò l’esigenza di mettere radici, per questo motivo il loro orto doveva generare un reddito maggiore ma, nonostante questo, decisero di non meccanizzare le operazioni colturali ma provare a intensificare la produzione lavorando in modo manuale. Il loro principio era: produrre meglio piuttosto che produrre di più.
Attraverso ricerche sulle tecniche orticole e gli attrezzi più adatti alle loro esigenze e ai loro principi, sono riusciti a realizzare una micro-azienda produttiva, con un orto che rifornisce più di 200 famiglie ogni settimana.
Jean-Martin ci racconta come la loro strategia iniziale fosse basata sulla “bassa tecnologia”, per limitare i costi di avvio, così in pochi anni di attività l’azienda era già redditizia. Inoltre il loro stile di vita è restato immutato, la loro attività principale è coltivare ma facendo in modo che sia l’azienda che lavora per loro e non il contrario, per questo si sono definiti “giardinieri”, proprio per la loro scelta di usare attrezzi manuali.
Non coltivano campi ma orti, limitando l’uso dei carburanti fossili. Le loro attività s’ispirano alla tradizione orticola francese, con qualche influenza americana. E’ stato proprio il libro di un americano, “The New Organic Grower” di Eliot Coleman, che gli ha fatto capire che era possibile ricavare profitto dalle coltivazioni con meno di un ettaro. Per loro anche il trattore non è necessario, l’intensificazione delle coltivazioni diminuisce il lavoro di diserbo, e gli attrezzi manuali che adoperano sono molto sofisticati e rendono il lavoro più comodo. Alla fine il lavoro è produttivo ed efficiente, oltre che in sintonia con una vita più sana. La micro-agricoltura è ancora scoraggiata ma la mentalità piano piano sta cambiando.
L’azienda di Fortier ha iniziato ad accogliere tirocinanti, ognuno con la sua motivazione specifica ma tutti ben determinati. Il contadino di famiglia sembra essere un mestiere gratificante, la fatica è ricompensata da tutte le famiglie che consumano regolarmente i loro ortaggi. E’ possibile guadagnare e vivere bene, questo è molto incoraggiante!
Un altro incoraggiamento ci arriva dai giardini di Chambord che, dal 2019, ha dedicato un appezzamento di 5 ettari per estendere e diversificare la produzione. I primi a beneficiare di questi orti sono i visitatori che possono provare i prodotti nei punti di ristorazione presenti nel Domaine de Chambord, ma questi piccoli orti produttivi giovano anche ai banchi alimentari locali. Questo progetto fa parte di un processo di sperimentazione e innovazione ispirato alle tecniche degli orticoltori parigini del XIX secolo, e alle tecniche legate ai terreni sabbiosi della Sologne.
Rubrica a cura di Anne Claire Budin
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Un progetto innovativo dell’importante studio londinese del progettista Thomas Heatherwick ha portato 1000 alberi in uno dei quartieri più densamente vissuti di Shangai, e sono destinati ad aumentare e non solo in Cina…
Su un’ansa del fiume Suzhou Creek, a Shanghai, a dicembre 2021 è stato inaugurato un edificio dall’aspetto fuori dal comune, come una versione moderna dei giardini pensili di Babilonia. Due “montagne” artificiali ricoperte di alberi e altri elementi vegetali che, in realtà, sono parte di un edificio multifunzionale. Commissionato dall’holding Tian an China, il progetto è partito nel 2015 ed è destinato a estendersi ulteriormente.
Lo studio di Thomas Heatherwick firma il progetto “1000 Trees” che ora conta la presenza proprio di 1000 alberi e 250.000 mila piante, con un incredibile impatto green sul paesaggio cittadino. L’obiettivo dello studio Heatherwick è creare spazi confortevoli per chi vive e lavora in questo quartiere.
Il sito è legato al territorio grazie alla presenza di un parco pubblico e di un distretto artistico, “1000 Trees” è un punto d’incontro e dialogo tra arte, natura e architettura.
Però gli alberi non sono una novità bensì sono essenziali alla vita, Thomas Heatherwick afferma in proposito: “Penso che al mondo dell'architettura possa piacere pensare che le cose siano mode passeggere, ma abbiamo bisogno di acqua, di aria, di alberi”.
Heatherwick ha sostenuto che alberi e piante devono essere sempre di più nelle città e che i principali sviluppi offrono l'opportunità di aggiungere più verde nelle aree urbane.
"Vai ovunque, dove sono costruiti nuovi edifici, e non c'è un equilibrio sufficiente con il mondo naturale".
Il prestigioso studio Heatherwick ha sede a Londra e vanta una squadra di 200 collaboratori, che si dedicano a rendere il mondo un posto migliore. La loro priorità è realizzare a progetti con un impatto sociale positivo, soprattutto nel loro lavoro non c’è nessun dogma legato al design, piuttosto la ricerca di soluzioni adatte alla realtà, che abbiano come guida l’esperienza umana.
In molti dei loro progetti cercano di integrare il più possibile la natura e, secondo loro, sarebbe utile che sempre più designer e architetti bilanciassero il proprio lavoro con il mondo naturale. L’integrazione degli alberi negli edifici è diventata sempre più popolare da quando Stefano Boeri, nel 2014, ha completato il suo grattacielo “Bosco Verticale” a Milano.
Qualcuno ha messo in dubbio la pratica di integrare gli alberi negli edifici, definendola semplicemente decorativa. In un articolo su Dezeen l’accademico Philip Oldfield afferma che il carbonio presente nelle fioriere in cemento del progetto “1000 Trees” è superiore alla quantità di carbonio che gli alberi avrebbero assorbito. Mentre Heatherwick sostiene che questa pratica è qualcosa che rinnova e rinfresca, qualcosa che i pannelli in alluminio, i sigillanti siliconici e le grandi lastre di vetro non fanno.
Per attirare l’attenzione su un’iniziativa per piantare nuovi alberi nel Regno Unito, lo Studio Heatherwick ha progettato “L’albero degli Alberi”, una scultura a forma di albero di 21 metri, installato a Buckingham Palace. La campagna Queen's Green Canopy, iniziata in occasione dei 70 anni di regno della regina, ha visto oltre un milione di alberi piantati nel Regno Unito da ottobre.
"Il nostro compito era di comunicare questa straordinaria iniziativa, mostrando che gli alberi sono i supereroi delle nostre città e paesi", ha affermato Heatherwick.
"E ogni architetto e progettista sa che le nostre città e paesi sarebbero esperienze estremamente impoverite se non supportiamo l'equilibrio dell'ambiente costruito con l'ambiente naturale", ha continuato.
"E quindi qualcosa che sta cercando di far luce su questa importante questione e vale la pena farlo."
Rubrica a cura di Anne Claire Budin
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E’ praticata ancora oggi la raccolta delle olive da famiglie e piccole aziende agricole, un lavoro che negli ultimi decenni ha visto delle migliorie ma che resta sempre faticoso. Uno sguardo nostalgico ma non troppo al suo passato.
Se ci fermiamo a osservare con attenzione le vecchie fotografie della raccolta delle olive, ci accorgiamo di quante informazioni possono darci riguardo il modo di raccolta e sugli usi e costumi legati al territorio e alla società contadina.
Oggi abbiamo le reti, le piante di ulivo sono quasi sempre basse e ben potate, esistono turboventilatori e altri attrezzi meccanici e manuali che ne facilitano la raccolta e, soprattutto, è impossibile vedere, tra muri a secco e viottoli, intere comunità lavorare collettivamente intente alla raccolta di questo frutto prezioso.
Le piante in passato erano molto più alte, così come le scale di legno impiegate che, a guardarle in queste foto in bianco e nero, fanno una certa impressione. I terreni sottostanti gli olivi erano puliti o meglio lavorati, soprattutto in pianura ma, anche negli uliveti collinari, venivano dissodati se non usati come pascolo per gli animali, ma quello che attira di più l’attenzione è il numero di persone che in passato era coinvolto in questa attività legata a un breve periodo dell’anno. Si capisce come fosse un lavoro molto più duro di quello che è oggi, come tutti i lavori dei campi ma che vedeva la partecipazione di tutta la comunità. I braccianti agricoli, tradizionalmente sottopagati, erano affiancati da tantissime donne. La manodopera femminile, che qualcuno ha definito un’avanguardia (ma facciamo finta di non aver capito!), non era certo risparmiata dalla fatica: si occupavano di preparare e sistemare i grandi teli di canapa, facevano la raccolta manuale delle olive, trasportavano pesanti sacchi di canapa camminando su terreni malfermi.
In pochi anni la società contadina si è dissolta, assorbita dalla “vita moderna”, la fabbrica, le periferie, abitudini diverse. Restare nei campi o tra gli ulivi non esercitava molta attrattiva sui giovani, ancora oggi il malessere è una costante per chi lavora nell’agricoltura, dove non mancano gesti estremi spinti da isolamento, problemi finanziari e mancati riconoscimenti. Nonostante questo non si può fare a meno di provare un senso di rammarico e nostalgia per quei tempi e per quella cultura, ormai scomparsa, che è stata la base della nostra società e che, in qualche modo, soddisfa ancora un nostro bisogno primario come l’alimentazione.
Rubrica a cura di Anne Claire Budin
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Da Singapore arriva un apprezzabile esempio di progettazione biofila, l’hotel Garden Wing situato a Shangri-la, un edificio con una presenza rigogliosa di verde, balconi bordati di piante in ogni camera e una parete vivente nella lobby lounge alta circa 10 metri, costruita con 350 kg di pietre di basalto ricoperte con muschio e vari tipi di felci. Un’atmosfera da giungla, arricchita dall’istallazione artistica del progettista giapponese Hirotoshi Sawada: una cascata di migliaia di foglie stilizzate.
I designer del 21° secolo si trovano davanti a due sfide urgenti: progettare spazi pensando alla sostenibilità e al benessere umano. Questo tipo di progettista potrebbe svolgere un ruolo cruciale nel trasformare il nostro ambiente costruendo spazi più sostenibili e più sani.
Biofilia si traduce letteralmente in amore per la vita, le cose viventi e la natura; concetto reso popolare dal biologo e naturalista americano Edward O. Wiley nel suo libro del 1984 “Biophilia”. Wiley sosteneva che gli esseri umani hanno un bisogno intrinseco di connettersi con la natura e altre forme biotiche, questo a causa della dipendenza evolutiva da essa, per la realizzazione personale e la sopravvivenza. Inoltre il design biofilo può influire positivamente sulla nostra vita, gli elementi naturali hanno il potere di ridurre lo stress e aumentare la creatività.
Partendo da questa ipotesi il design biofilo insegue una riconnessione con la natura e cerca di portare l’esterno negli interni. Incorpora elementi naturali, forme, trame e altre caratteristiche dell’ambiente naturale all’interno degli spazi pubblici, nell’architettura e nella progettazione degli interni.
Esiste una differenza tra architettura verde/sostenibile e design biofilo. L’architettura green riguarda la riduzione al minimo dell’impatto sull’ambiente causato dal costruito, mentre il design biofilo enfatizza il collegamento con la natura. Lo scenario preferibile è quando vanno di pari passo, completandosi a vicenda.
La progettazione biofila può essere avviata a livello di comunità, singolo edificio o piccolo progetto; oltre alla presenza di piante e vegetazione deve includere funzionalità come luce naturale e ventilazione, utilizzare materiali naturali, imitare il più possibile forme e geometrie naturali, mostrare vedute della natura attraverso finestre o immagini, usare colori e toni della terra, adoperare in modo strategico elementi come vegetazione e acqua e utilizzare pareti e tetti verdi.
Rubrica a cura di Anne Claire Budin
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Un penitenziario su un arido scoglio può diventare un florido giardino e un’icona pop? Sì, se parliamo di Alcatraz…
Una roccia desolata e gigantesca nella baia di San Francisco è oggi una meta turistica e un paradiso per l’orticoltura. Le dalie viola in piena fioritura ondeggiano contro un cielo color zeffiro, siamo sull’isola di Alcatraz, famosa per essere stata la prigione di massima sicurezza che ha “ospitato” Al Capone e da cui in pochi sono riusciti a fuggire. Una parte di questo grande e inospitale scoglio è legato al carcere, l’altra parte è un giardino storico che prospera e resiste nella nebbiosa Baia di San Francisco.
“The Rock” in origine era un’imponente scogliera di arenaria a un miglio dalla costa. Dove i giorni di sole sono gloriosi ma, tutti gli altri elementi naturali, sono volubili e spietati. Venti che soffiano a velocità incredibili e nebbia che spesso inghiotte l'isola per lunghi periodi. Eppure in questo roccioso luogo di punizione, per quasi 150 anni, le rose sono sbocciate.
Nel 1860 Alcatraz servì come prigione militare di minima sicurezza, tutti i materiali dovevano essere portati con barche e chiatte, compresi materiali da costruzione, terra, acqua e piante; questo luogo selvaggio, in cui solo gli uccelli andavano a nidificare, dopo pochi anni vide nascere i suoi giardini. La trasformazione da paesaggio arido a luogo più intimo e accogliente fu iniziata dalle donne al seguito dei primi soldati, che qui si installarono sul finire dell’ottocento. Su questo “scoglio” in mezzo al mare tutto cresceva in modo rigoglioso, le persone indossavano pesanti pellicce ma i gerani scarlatti e le fucsie prosperavano. Così, quando l’isola divenne sede della prigione militare, i detenuti furono incoraggiati ad abbellire ulteriormente l’isola, partendo dai giardini. Era un’opportunità molto importante per il loro morale e quello delle guardie: i giardini erano un luogo di positività, dove creare vita e bellezza in un ambiente arido, aspro ed esigente. Solo le piante da giardino più resistenti erano in grado di sopravvivere con le poche cure che potevano ricevere. Questo continuò anche quando Alcatraz divenne il penitenziario di massima sicurezza sotto il Federal Bureau of Prisons dal 1934 al 1963. Fare giardinaggio dava soddisfazioni e opportunità di formazione professionale ai reclusi, oltre che benefici riparativi. Grazie ai giardini di Alcatraz si ha uno dei primi esempi di terapia orticola nelle carceri, una pratica che è ancora nei programmi di san Quentin in California e Rikers a New York. Nello stesso tempo l’isola diventa un’icona rock e pop, grazie anche alla sua fama sfruttata da Hollywood. Luogo isolato, uomini difficili, splendidi giardini, con questi ingredienti non sorprende che oggi sia un hotspot turistico di successo.
Quando anche il penitenziario di massima sicurezza fu chiuso, l’isola fu abbandonata, così come i suoi giardini per quattro decenni. Uccelli ed erbacce ebbero di nuovo il sopravvento finché, nel 2003, il Garden Conservancy e il Golden Gate National Parks Conservancy hanno dato il via a una collaborazione con il National Parks Service per riportare i giardini al loro splendore e mantenerli come attrattiva dell’isola. Anche se la visita al penitenziario con le sue celle resta il motivo principale per cui si visita l’isola, senza dubbio i suoi giardini stupiscono e conquistano i visitatori. Oltre 200 specie sono sopravvissute agli anni di abbandono. Erano presenti 15 specie di rose, oltre a bulbi, fichi e piante grasse. Sul ventoso lato ovest l’elenco delle piante sopravvissute include: Echium candicans, Agave americana, Coprosma repens, Crassula argentea, Agapanthus orientalis, Aloe saponaria, Sedum praealtum, Chasmanthe, Aeonium arboreum, Drosanthemum. Sul lato est invece più calmo: Fucsia magellanica, Fucsia "Rosa di Castiglia", vari iris barbuti, Crocosmia, Watsonia, Hebe, Centranthus, Cistus, Yucca e Pelargonium. Nel 1989 il coltivatore di rose George Lowery trovò una rosa di colore rosso intenso, creduta estinta, nella casa di un guardiano, la rosa fu identificata come “Bardou Job”, una tra le più rare. Un’altra particolarità di questo luogo è il compostaggio, al fine di non esaurire lo spazio per mettere nuova vegetazione, per riciclare la maggior parte della biomassa, questo rende i terreni sempre più capaci di trattenere l’umidità. Il compost di Alcatraz ha vinto premi alla Marin County Fair e l’unico vegetale che non è usato come concime è l’eucalipto perché tossico.
Questo luogo in cui tante persone, con storie diverse e spesso complicate alle spalle e senza esperienza nel settore, hanno dato vita a splendidi giardini, dove l’iris barbuto sopravvive al vento e alla nebbia, è un esempio di resistenza e un ecosistema unico e specifico. Una storia singolare che abbraccia reclusione e liberazione, bellezza e disperazione e, soprattutto sopravvivenza. Benvenuti nei giardini di Alcatraz.
Rubrica a cura di Anne Claire Budin
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Ebanista, scultore e designer, Jean-Damien Badoux è nato a Lione nel 1984, alle spalle ha 10 anni di esperienza nel mondo dell’aeronautica, passato che non rinnega anzi fa tesoro di questa sua esperienza nello sviluppo di materiali compositi e della conoscenza nei processi produttivi, che gli consentono di lavorare finemente il materiale. Nel laboratorio aperto a nord di Lione nel 2013 prendono vita le sue creazioni poetiche, realizzate manualmente; pezzi unici o piccole serie dove la natura è chiaramente la sua principale ispirazione.
Badoux sviluppa due gamme di oggetti. Nella prima, in rovere, ogni mobile definito da una linea minimale come un tratto di matita, evoca le forme organiche della natura. Il secondo, in betulla, impone una visione più primitiva.
E’ usato il materiale solo dove serve in modo da ottenere un design raffinato e arioso e che da, alle creazioni di Jean-Damien Badoux, la possibilità di raccontare la propria storia, il proprio legame con la natura.
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Elisabetta II (1926-2022) è sempre stata una grande appassionata del mondo delle piante: l’amore per le rose, le visite al Chelsea Flower Show di cui era madrina e grande fan, la fedeltà alla tradizione orticola britannica, contraria all’uso di pesticidi e fervente attivista per proteggere le foreste del Commonwealth.
Non ha mai perso un’edizione del Chelsea Flower Show, la più grande fiera di giardinaggio del mondo nata alla fine dell’ottocento e che, ogni anno a maggio, si svolge a Londra organizzata dalla Royal Horticultural Society. Sebbene a bordo di un’auto da golf, anche all’ultima edizione la regina si è recata il giorno prima dell’apertura al grande pubblico, il cosiddetto “Queen Day”, ha visitato tutte le creazioni paesaggistiche, incontrato giornalisti e tutti i Vip presenti quel giorno.
La sua passione per la natura non si è fermata a questa importante fiera londinese… Nel 2018 ha promosso un progetto per contribuire alla tutela delle foreste in 53 paesi del Commonwealth, presentandolo personalmente in un documentario girato nei giardini di Buckingham Palace. Qui, mentre passeggiava nei sentieri del parco, Elisabetta rammentava la sua passione per la natura e raccontava aneddoti legati alla varietà di piante presenti nel parco: il Platanus Hispanica piantato dalla principessa Mary il 15 ottobre 1915, l’albero messo a dimora dalla Regina Vittoria su cui Elisabetta II amava arrampicarsi da bambina, e gli alberi piantati alla nascita di ciascuno dei suoi figli.
Elisabetta II aveva una grande passione per le rose e, ammetteva di avere un debole soprattutto per quelle sui toni del rosa. Nel 1954 il vivaista americano Lammerts immaginò un cespuglio di rose per celebrare la sua incoronazione. La “Queen Elisabeth” è ancora oggi una delle rose più vendute al mondo, nel 1979 fu inserita nella Rose Hall of Fame. In omaggio al suo defunto marito, il duca di Edimburgo, il presidente della Royal Horticultural Society regalò alla regina d’Inghilterra una rosa rossa, piantata poi ai piedi della terrazza del castello di Windsor.
Nel 2022 David Austin Roses lancia una nuova qualità, una graziosa rosa pallido, la “Elisabeth” (Ausmajesty) in occasione del Queen’s Platinum Jubilee, e chiamata così in onore si Sua Maestà la Regina Elisabetta II, con l’approvazione della Casa Reale.
Elisabetta II ha trascorso i suoi ultimi giorni di vita nelle Highlands in Scozia, nel castello di Balmoral, la residenza estiva della famiglia reale.
A Balmoral si divertiva a cavalcare nel parco di 20.230 ettari, al principe Alberto dobbiamo le piantagioni di conifere esotiche presenti in questa proprietà, acquistata nel 1853 da sua moglie, la regina Vittoria.
In seguito re Giorgio V creò i giardini alla francese del castello e, negli anni ’50, il principe Filippo ha aggiunto un giardino acquatico floreale.
Pur amando profondamente la natura, Elisabetta II ammise che per lei il giardinaggio era solo “sradicare le erbacce” e raramente metteva le mani nella terra.
Il suo successore, re Carlo III, è invece un giardiniere illuminato. E’ padrino di uno dei giardini botanici più prestigiosi del mondo, il Kew Garden di Londra e possiede un parco straordinario nella sua proprietà di Highgrove.
Questo neo sovrano può essere definito un precursore dell’ecologia, su consiglio della botanica Miriam Rothschild si è immaginato un giardino visionario che ospita la più grande collezione di faggi del Regno Unito. Il nuovo re lo definisce un luogo per placare gli animi, ispirare e emozionare.
Rubrica a cura di Anne Claire Budin
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Evento di rilievo internazionale il Landscape Festival si svolge a Bergamo dal 2011. Nato da un’idea dell’Associazione senza scopo di lucro Arketipos è dedicato allo sviluppo della cultura del paesaggio.
Il festival aperto al grande pubblico si svolge nella meravigliosa cornice di Bergamo Alta; grazie anche all’impegno del Comune di Bergamo il Landscape Festival è stato riconosciuto come evento unico in Italia e all’avanguardia in Europa per visione, contenuti e format.
Uno dei temi affrontati nel corso dell’edizione XII, in programma in Città Alta dall’8 al 25 settembre, sarà “Forgotten Landscape”, che riunisce in un solo giorno di incontri i più noti esponenti del landscaping del mondo. Architetti, paesaggisti, garden designer, botanici, plant designer raccontano ciascuno la propria esperienza e filosofia progettuali.
Il cuore della manifestazione è la Green Square, firmata dal progettista e plant designer di fama internazionale Cassian Schmidt e dall’Università tedesca di Scienze Applicate di Weihenstephan-Triesdorf, rappresentata da Aurelia Ibach, Verena Hurler, Fabiola Leonett von Wachter e Simon Schwarz, gli studenti che si sono aggiudicati il concorso per la definizione del concept e del focus.
Inoltre le 3 settimane di festival si arricchiscono di 70 eventi aperti al pubblico, come laboratori, atelier, aree didattiche, giochi, mostre pensate per bambini e famiglie, in grado di coinvolgere educando al verde, al bello e alla sostenibilità.
“Bergamo città del paesaggio” grazie al proprio patrimonio collinare e al fatto che il costruito si fonda con il paesaggio naturale, un quarto della città è “Parco regionale dei colli”. Il Consiglio d’Europa ha insignito la città con il premio “Paesaggio d’Europa 2021” e, come afferma il sindaco Giorgio Gori, lo è anche attraverso il Landscape Festival, un tassello importante, soprattutto l’edizione 2022, per il rilancio della città lombarda.
Il 24 settembre 2022 avrà luogo la cerimonia di premiazione del Land Award, Premio Internazionale del Paesaggio, con l’obiettivo di premiare l’eccellenza e riconoscere il valore di quei progetti di ampio interesse internazionale che forniscono un contributo rilevante al dialogo tra natura e artificio e alla crescita di una più diffusa sensibilità nella trasformazione delle città, del territorio e dei luoghi dell’abitare. Altro obiettivo è premiare quei progetti realizzati che risultano significativi per la loro capacità di generare un contributo positivo alla integrazione e alla qualità della vita delle persone nel rapporto tra arte, architettura e paesaggio. Il premio farà emergere gli interventi realizzati nel panorama nazionale e internazionale che rappresentano esempi virtuosi di trasformazione del territorio.
L’attenzione si concentrerà su quelle opere che siano stati in grado di aggiungere “bellezza” al territorio nel quale si sono inseriti. La millenaria tradizione della storia ci insegna che bellezza e trasformazione del territorio possono e devono convivere anche nella complessità della contemporaneità.
Rubrica a cura di Anne Claire Budin
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Ricostruire le relazioni tra uomo e ambiente naturale con il confort della tecnologia, Symbiotic Architecture: il progetto surreale dell’architetto Manas Bhatia.
La Symbiotic House, la casa simbiotica, ha l’obiettivo di riportare l’uomo a contatto con la natura, ricostruendo le relazioni tra gli esseri umani e ciò che gli circonda. La Symbiotic House si basa sui valori tradizionali del vivere in armonia con la natura, integrando nel progetto la tecnologia necessaria per uno stile di vita moderno e conveniente.
L'associazione simbiotica, nel campo dell’architettura, si traduce nel rapporto tra edificio esistente e nuovo intervento. Lo scopo delle associazioni simbiotiche è consentire ad almeno un simbionte di trarne benefici.
Utilizzando il potenziale dello strumento d’intelligenza artificiale (AI) MidJourney, l’architetto e progettista computazionale Manas Bhatia immagina un futuro architettonico surreale con il suo progetto Symbiotic Architecture.
Rubrica a cura di Anne Claire Budin