Giardini da intervista

Alessandro Vezzosi, fondatore con Agnese Sabato del ‘Giardino di Leonardo e dell’utopia’ e direttore del ‘Museo ideale Leonardo da Vinci’, nel paese natale di Leonardo, ce lo illustra dicendo che al momento è «dormiente». Anche il museo è fisicamente chiuso da 6 anni, ma sempre attivo e organizza eventi espositivi in Italia e all’estero: in questo momento una mostra a Tokyo da 4 mila visitatori al giorno. L’intento di Vezzosi e collaboratori resta «tradurre in vita l’eredità di Leonardo, senza retorica ma con linguaggi nuovi e possibilmente rilevanti sul piano estetico e concettuale».

Un giardino che c’è e che non c’è, che vive nel passato e nel futuro, in quel che è stato e in quel che sarà o potrebbe essere. Ma che soprattutto è il frutto in divenire di un sapiente gioco dialettico fra idealità progettuale e realtà, permanente o effimera: un’opera vivente in cui confluiscono la filologia e il suo uso creativo con i linguaggi dell’arte contemporanea e della scienza.
E’ il ‘Giardino di Leonardo e dell’utopia’ di Vinci, nato nel 1997 da una costola del ‘Museo ideale Leonardo da Vinci’, che era stato fondato quattro anni prima nella galleria sotterranea e nelle antiche cantine del castello di Vinci da un gruppo di studiosi e artisti coordinati da Alessandro Vezzosi (leonardista e critico d’arte) e sua moglie Agnese Sabato (storica, presidente dell’Associazione Internazionale Leonardo Da Vinci), sotto l’egida dell’Armand Hammer Center for Leonardo Studies dell’Università di California. Museo fondato con il patrocinio degli enti locali e riconosciuto d’interesse pubblico nel 1999 che si propone di «trattare la complessità di Leonardo artista, scienziato, inventore e designer in rapporto alla sua biografia, ai suoi territori e alla sua attualità»; ma che da sei anni è fisicamente chiuso «per infiltrazioni d’acqua da strutture soprastanti». Giardino e Museo erano fin dall’inizio destinati a dar vita un “Centro di arte natura e scienza per la Toscana di Leonardo”, con un villaggio della creatività comprendente foresterie per artisti e scienziati e spazi per convegni e mostre.
Si tratta dunque di un «giardino dormiente», per usare la definizione di Alessandro Vezzosi, sentito al termine di una conferenza organizzata qualche giorno fa dall’associazione ‘Per Boboli’ al Teatro del Rondò di Bacco di Firenze. Non era facile intervistare sulla sua creatura, in sospeso fra l’essere e il non essere, ma al tempo stesso così viva e presente nella cultura non solo nazionale, il coltissimo direttore Vezzosi senza lasciarsi trasportare in un infinito viaggio di rimandi culturali. Ma Floraviva ci ha provato e gli ha chiesto di presentare il Giardino di Leonardo e dell’utopia illustrando, uno per uno, i suoi tre elementi fondamentali: il ‘Labirinto dei vinci’, il ‘Sentiero di alberi e fiori diversi’, il ‘Nodo infinito di rose gioconde’.

labirinto leonardo

In cosa consiste il ‘Labirinto dei vinci’, questa «realizzazione permanente di arte-natura-scienza», come è scritto sul vostro sito web, ispirata al «disegno del labirinto di Leonardo» da lei ricostruito a partire da alcuni schizzi del 1497? Nella conferenza ha spiegato che il labirinto fu prima realizzato, in un’area di 3000 metri quadrati per un percorso di 800 metri, fra i girasoli, i quali furono poi sostituiti da 1500 salici purpurei, i “vinci”? Cosa rimane adesso?
«Intanto va premesso che il labirinto è uno dei simboli di riferimento assoluti per i giardini e per tutta la cultura universale; quindi ricostruire, a partire da piccoli segni, la forma di un “giardino di Leonardo” assunse un valore emblematico per la nascita dell’intero giardino e anche per i suoi rapporti con il Museo ideale. Così, prima del 1997, avevamo pensato che il disegno del labirinto si poteva ragionevolmente realizzare “in negativo” in una distesa di piante, all’interno di una texture esistente. Allora la scelta cadde sul girasole poiché si prestava per mille ragioni: come simbolo e per la sua forma, per i suoi colori e le sue dimensioni. Ma anche per un’altra ragione quasi provocatoria. C’è un rebus di Leonardo che dice “gira il sole” e che raffigura schematicamente quello che per lui è il girasole; siamo prima della scoperta dell’America, anzi quasi in contemporanea, e questo pone degli interrogativi: si riferiva con “girasole” a qualche altra pianta? Oppure per qualche strano motivo era a conoscenza dell’esistenza dei girasoli, quando nella botanica storica non mi risulta che il girasole fosse già arrivato in Europa (poi naturalmente quello che noi abbiamo approfondito in una ricerca del 1997 oggi può essere smentito da nuove scoperte e può darsi che anche in Europa si trovasse il girasole)? Allora questa era una maniera per realizzare qualcosa di estremamente rilevante sul piano pratico (il labirinto era percorribile in una sorta di immersione nella natura), concettuale e riflessivo, e sul piano dell’estetica, della piacevolezza di questa distesa di girasoli, e poi anche per richiamare il fatto che l’arte nel giardino, e in tante altre sue espressioni, ha una straordinaria componente di effimero. E questo labirinto naturalmente era stagionale: lo abbiamo realizzato nel 1997 e poi l’anno successivo».
Come si è passati ai vinci al posto dei girasoli?
«Ci arrivo. Ma prima alcuni flash sul modo in cui è stato allestito e animato il labirinto. All’interno di esso abbiamo collocato dei segreti, abbiamo fatto performance, abbiamo realizzato la selva di voci (un riferimento a un progetto presentato con Eugenio Battisti per Pratolino Giardino d’Europa nel 1986); i piccoli aeroplani che lo sorvolavano lanciavano le piume di Icaro con le scritte di poeti, artisti e personalità diverse; un elicottero della polizia trovò un vuoto d’aria e rischiò di cadere nel labirinto… Ecco tutto questo ha creato veramente un clima straordinario. Era tutto studiato con una serie di correlazioni anche per creare un’emozione condivisa e partecipata dalla folla e su un livello che a noi piace, quello dell’arte diffusa, l’arte vissuta. Perché il Museo ideale di Leonardo è stato da noi concepito proprio come un’opera d’arte vivente, e questo vale ancor più per il giardino e il labirinto».
E la sostituzione di piante come è avvenuta?
«Si è ritenuto opportuno creare una struttura permanente, senza ripartire ogni anno da zero. Si impiegava un sistema tecnologico di puntamenti che era molto impegnativo da realizzare. Allora siamo passati all’idea emblematica per eccellenza: i “vinci”, che hanno dato il nome al paese natale di Leonardo, alla sua famiglia e alla sua accademia, e sono simbolici per il concetto leonardiano di intreccio di saperi e di culture. Avevamo già fatto un sentiero dei vinci e ci siamo detti: facciamo il labirinto con i vinci, perché è bello d’inverno con il suo colore rosso, e florido d’estate ecc. E’ stato realizzato due anni dopo nello stesso luogo. E c’è ancora, ma incontrollato. Stiamo aspettando di poter rilanciare il Museo ideale e con esso il giardino, magari per il 2019, 5° centenario della morte di Leonardo.. Questo giardino era diventato davvero un luogo di riflessione. All’interno del cerchio finale, con le sedute di intrecci, si creava un ambiente introspettivo, un luogo di meditazione, un percorso di riflessione come lo è il labirinto classico…»
Quale dei due altri elementi è stato creato dopo il labirinto?
«Dopo il labirinto è nato il ‘Sentiero di alberi e fiori diversi’. E’ nato perché per Pratolino con Bruno Munari avevamo progettato di realizzare un ‘Viale degli alberi diversi’. Abbiamo prima realizzato un sentiero di vinci, molto naturale, con gli alberi che crescevano spontaneamente lungo un torrente (ed esiste ancora). Ma poi abbiamo detto: facciamo un lavoro più rigoroso; l’idea di Bruno Munari - grandissimo artista - la trasformiamo in una creazione dal nome più modesto, ma che esprima una concezione simbolica di arte, natura  scienza; quindi lo chiamiamo “sentiero”; poi però parliamo anche di fiori, non solo di alberi; e coinvolgiamo in questa operazione le scelte di personalità significative: dal presidente della repubblica Ciampi a una scienziata come Rita Levi Montalcini, il poeta, lo scrittore, il pittore, lo scultore, il designer, e quindi Sottsass, Portoghesi e Mendini a Spoerri, Luzi, Giuliano Gori …»
Coinvolti in che modo?
«Con la scelta di un albero o un fiore da piantare: ognuno di questi celebri personaggi ci ha inviato il nome della pianta scelta. Tra l’altro, ricordo che nel 2007 è venuto il presidente della repubblica Giorgio Napolitano che ha dedicato un testo, una frase molto bella al museo e al giardino: “un’esperienza unica in Europa che onora il genio di Leonardo in uno spazio dove arte, natura e scienza si fondono con forti significati poetici, simbolici ed estetici e sottolineano l’universalità e la molteplicità delle attività e degli interessi di Leonardo, come invito alla pace e al dialogo fra culture diverse». E l’ultimo albero che abbiamo messo a dimora è stato quello del presidente Napolitano a cui avrebbe fatto seguito quello del presidente Sarkozy, nell’ottica del gemellaggio fra Vinci e Amboise (dove morì Leonardo nel 1519) ovvero fra l’Italia e la Francia».
Queste piante ci sono ancora?
«Ci sono ancora, però anche quelle dormono. Comunque abbiamo buoni propositi perché è stato un investimento, una fatica ed è un’idea bellissima. Non va dimenticata, nel sentiero, la componente artistica. Questo sentiero è una spirale che si basa sulla sezione aurea, quindi c’è tutta una logica leonardiana, perché Leonardo ha avuto un’attenzione particolare per il tema della spirale e l’ha studiata in tante forme partendo dal problema geometrico e matematico per tante applicazioni dal punto di vista artistico. Ci sono alberi, però nella nostra idea dovrebbero esserci anche parole. Questa è un’evoluzione che ci stiamo immaginando perché all’interno del giardino pensavamo a tutta una serie di percorsi di parole e opere d’arte».
E come le immaginate precisamente le parole? Come installazioni sonore?
«In due componenti. Una è quella sonora dei bisbigli, come evoluzione anche del progetto di Eugenio Battisti, e quindi delle voci e delle musiche, intendendo il concerto di parole. L’altra sono però brani di poesia, e anche testi di Leonardo, scolpiti. Naturalmente un ruolo importante in tutto questo l’avranno gli artisti che lavoreranno per realizzare questi progetti».
Non è stato ancora realizzato niente in tale senso?
«Sono state presentate più volte opere di artisti, come ho accennato stasera, ma poi sono state tutte tolte. Erano provvisorie, in attesa di un’attivazione complessiva del Museo all’aperto».
Come è andata invece con il ‘Nodo infinto di rose gioconde’?
«Il nodo è la terza parte, che collega fra loro gli altri due elementi. Si trattava di questo nodo infinito, che noi abbiamo detto essere ispirato alla Gioconda, perché la Gioconda ha un nodo qui sulla veste. Un nodo che fa pensare a quello che ha realizzato di recente Pistoletto, questo segno di infinito moltiplicato. La logica in questo caso era interpretare il simbolo di Leonardo del nodo vinciano.  E’ un nodo infinito di varie forme: ne ha fatte sei cartelle, che prima ha realizzato tramite probabilmente la collaborazione di un suo allievo incisore, e poi è stata ripresa nei primi anni del ‘500 niente meno che da Albrecht Dürer, considerato il Leonardo tedesco».
Il nodo infinito è stato realizzato davvero nel giardino e c’è ancora?
«Sì, dopo gli altri due elementi. Ed è stato fatto con rose selvatiche di vari colori, che abbiamo definito gioconde. Sono rimasti tanti di questi cespugli. Naturalmente è tutto da reintegrare…»
Per chi volesse avventurarsi a vedere il giardino, dove si trova esattamente?
«E’ in una posizione strategica alle porte di Vinci, fra via collinare e la cerretese. Ma in questo momento non è possibile visitarlo. E’ di proprietà privata, nostra, ma vorremmo che, grazie al riconoscimento pubblico, diventasse patrimonio dell’umanità. Perché il concetto che ho evidenziato anche nella conferenza con quella veduta dall’alto del paesaggio in cornice (proprio sopra il luogo dove è iniziato a nascere il giardino) veduta ripresa dalle mongolfiere in volo e in concerto, è che il museo non deve essere solo un luogo chiuso e non deve nemmeno essere soltanto quello definito museo all’aperto. In realtà, ci auguriamo che il territorio diventi un museo con il proprio vissuto civile e socio-culturale».
Senta, se tutto andasse bene e nel 2019 il museo e il giardino fossero di nuovo aperti e pienamente in funzione, continuerete a concepirli come un organismo in divenire, animato da iniziative e allestimenti dinamici, o questa impostazione è stata anche un modo per fare di necessità virtù?
«Quello che abbiamo fatto a Vinci nel Museo Ideale e nel Giardino di Leonardo è quello che attualmente stiamo facendo con le mostre esterne e con una serie di eventi. Il concetto è sempre lo stesso: tradurre in vita quella che è l’eredità di Leonardo, senza retorica, ma con linguaggi nuovi e possibilmente rilevanti sul piano dell’estetica e della concettualità. Ecco questo sicuramente sarà una costante e cercheremo anche nei prossimi mesi di evidenziarlo. Del resto, ciò vale a tutti i livelli e in tutte le epoche. Anche per Leonardo sicuramente era facile immaginarsi una città ideale, immaginarsi la deviazione dell’Arno da Firenze a Pisa, e anche progettarla. Però la realizzazione era difficile. Ma c’erano e ci sono comunque delle soluzioni interessantissime: la prefabbricazione, che si applica benissimo all’effimero del giardino e delle feste teatrali. In effetti la creatività e le idee di Leonardo trovano una più facile espressione nella dimensione del giardino e del teatro (e lo abbiamo dimostrato con il Teatro dell’Universo e della Montagna che si apre), lì veramente tutta una serie di marchingegni possono essere trasformati in applicazioni di ingegni teatrali e ingegni dell’artificio fra arte, natura e scienza, per un giardino delle meraviglie e dell’utopia».
 
Lorenzo Sandiford

Forse soltanto un luogo come il Forte di Belvedere e l’incredibile abilità artistica di Antony Gormley potevano catalizzare in unica visione scultura e panorama, costrizione e ascesa. La mostra Human si caratterizza infatti per il suo dichiarato intento di voler fermare i propri visitatori nel loro peregrinare al fine di incoraggiarli alla riflessione su sé stessi e sul loro rapporto con lo spazio che li circonda. Occasione e ostacolo sono dunque le due visioni artistiche e umane che Antony Gormley ha deciso di portare dentro il Forte fiorentino di Belvedere. A partire dagli anni sessanta del secolo scorso, Gormley studia la relazione fra esseri umani e natura, pensando all’arte quale luogo del divenire in cui qualcosa di nuovo può nascere. Invece di inserire opere che si sarebbero misurate con la spazialità del Forte di Belvedere, Antony Gormley ha deciso di esporre opere a misura d’uomo che permettano alla struttura di esprimersi e non la contrastino. Entriamo così nella fortezza cinquecentesca, dai panorami unici sulla città e sulle colline fiorentine, e incontriamo le opere dislocate in modo capillare: nella palazzina, sulle terrazze, sui bastioni e sulle scale. Più di cento sculture e fra esse l’importante installazione Critical Mass, capace di evocare tutte le vittime del XX secolo nella sua veste di anti-monumento, ideato per un vecchio deposito di tram a Vienna al fine di farne un luogo di riflessione su un momento drammatico della storia della Germania. Oggi Critical Mass si trova in un contesto completamente diverso e affascinante, in dialogo con la storia dell’umanesimo fiorentino. Le sculture di quest’opera derivano da modelli presi direttamente dal corpo dell’artista stesso e sono nel Forte assieme a quelle di Blockworks, le quali riproducono l’anatomia umana tramite volumi architettonici. Così all’interno della cornice del Forte di Belvedere e del suo verde toscano, si insinuano oggetti industriali in ferro che sembrano abbandonati, ma che riflettono in realtà l’ombra che accompagna inevitabilmente ogni concetto di progresso umano. Human è aperta al pubblico dal 26 aprile e lo sarà fino al 27 settembre. Promossa dal Comune di Firenze, la mostra è organizzata da Mus.e, con il sostegno di Galleria Continua e White Cube, per la direzione artistica di Sergio Risaliti e curata da Arabella Natalini.
http://www.galleriacontinua.com/italiano/videos.html

Redazione Floraviva

human di Antony Gormley

Prosegue il nostro viaggio nei meravigliosi giardini di arte contemporanea della Toscana: oggi la nostra curiosità ci ha spinto, nonostante le prime avversità climatiche invernali, verso Cantagallo, in provincia di Prato.  Qui sorge un incredibile Complesso artistico contemporaneo formato dal Museo all’aperto di Luicciana, il Circuito di Arte Pubblica e il Circuito di Arte Ambientale: la sapiente suddivisione in tre aree permette un’avanzata sperimentazione artistica che, nel tempo, ha visto la partecipazione di molti artisti noti a livello internazionale.  Informandoci, scopriamo che il Museo nacque nel 1983 come naturale evoluzione di una mostra periodica collettiva che presentava lavori di vari artisti. Per volere della Pro Loco di Luicciana, del Ce.Pa.C. (Centro di promozione artistico-culturale di Prato) e del comune stesso di Cantagallo si dette vita a questa interessante sperimentazione a lungo termine con l’intento di donare un volto nuovo al paese, grazie all’apporto di opere pittoriche e scultoree inserite nell’abitato come tessere di un unico mosaico. E l’intento appare pienamente realizzato ai nostri occhi di visitatori. Ciò che si prospetta, già a un primo sguardo, è una vera e propria rinascita dell’intero panorama naturalistico dovuta alla vivacità delle opere. Le mura e le corti sono state nobilitate, spazzando via il grigiore degli inverni e risvegliando l’intera vita culturale dell’alta valle del Bisenzio. Il comune di Cantagallo, infatti, si è da subito dedicato alla promozione del suo Museo, avvalendosi della collaborazione di soggetti esperti nel settore, come il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, e promuovendo in prima persona progetti che potessero arricchire la collezione. Qui incontriamo opere di molti artisti dell’avanguardia fiorentina degli anni ’60 e ’70, fra cui Vinicio Berti, Silvio Loffredo, Gualtiero Nativi, e in generale un giusto connubio fra maestri di livello internazionale e giovani leve per una prospettiva che sa integrare arte affermata e emergente. Il borgo di Luicciana ospita affreschi, sculture, installazioni in ceramica e ferro, oggetti polimaterici in un unico museo all’aperto. Nel circuito di Arte pubblica sono inserite opere urbane di noti artisti che hanno avuto, al momento della realizzazione, come obiettivo quello di integrare la loro arte al territorio. Esempio perfetto di questo connubio è “Chi mi parla” dello scultore Vittorio Corsini di Firenze: l’opera assolve, infatti, anche la funzione di un punto della pubblica illuminazione nei pressi della Chiesa di San Michele. O ancora, “Fornire realtà” di Bert Theis, balaustra che ha sostituito un fatiscente parapetto di cemento sulla strada comunale Luicciana-Cantagallo. Qui troviamo allora la sorprendente soluzione dell’arte ai bisogni del territorio: essa sa rispondere concretamente alle esigenze di un paesaggio apportando il suo valore aggiunto di una colorata intensità, che sembra ormai mancare nel grigiore in cui versano molti panorami toscani, abbandonati a se stessi. 

 
Anna Lazzerini

Su una collina che si affaccia al centro di Pescia sorge il giardino di Villa Sismondi, sede della biblioteca comunale di Pescia, ma un tempo dimora dello studioso ginevrino Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi, conosciuto altresì come Simondo Sismondi. Il luogo è conosciuto dai pesciatini come Valchiusa, pare sia stato lo stesso Sismondi a ribattezzare così quella che fino al suo arrivo era indicata nelle mappe come “Villa Sfrusi”. Oggi, il giardino appare sostanzialmente diverso da come appariva nel 1797 al Sismondi, che così lo descriveva: “…nel fondo del bacino scorre un piccolo ruscello (Rio S. Michele)...a destra del quale si trovano oliveti, vigne ciliegi e fichi, riparati dalla tramontana in inverno. Sulla sinistra del Rio dove il sole è più caldo e l’inverno è sconosciuto, i prati fioriscono in continuazione e lambiscono i campi di grano...Ogni piccolo campo è cinto da un filare di vigneti e ombreggiato da alberi da frutto…Due lunghe pergole (di vite) coprono i viali che percorrono questo piccolo bacino ed una fonte viva alimenta tre o quattro fontane.” Nel 2011 Irene Bernardi, Massimo Mirabile e Lorenzo Simonetti, studenti del corso di laurea in Progettazione e Gestione del Verde Urbano e del Paesaggio presso l'Università di Pisa hanno fatto un'ipotesi di restauro del giardino storico. Il progetto, seguito dal professor Galileo Magnani, è stato orientato anzitutto a restituire al giardino uno stile compositivo, oggi, non più riconoscibile facendolo sembrare piuttosto un giardino da collezionisti botanici a causa dell'abbondanza di vegetazione esotica. Le specie presenti, come la moda ottocentesca richiedeva, erano soprattutto: Magnolie, Palme, Camelie, Bambù, Albero di Giuda e Lagerstroemia.  Gli autori del progetto hanno tolto alcune di queste piante allo scopo di creare una maggiore superficie soleggiata e dare più profondità al giardino, ma allo stesso tempo rendere fruibile al pubblico quello che era stato concepito come un “giardino privato”. Nella loro ipotesi di restauro, che tiene conto delle specificità dell'epoca, c'è un bersò lungo la scalinata centrale con l’introduzione della Clematis, una pianta dal forte valore ornamentale, la reintroduzione degli agrumi – che un tempo venivano venduti all'interno della proprietà del Sismondi - condotti a spalliera sul lato nord al riparo dalla tramontana; l'introduzione di due Palme da datteri,  posizionate a fianco della scalinata centrale per dare slancio alla facciata della villa padronale e riprendere al contempo uno stilema di inizio novecento. In questa ottica rientra anche il roseto che fiancheggia la doppia gradonata. Come motivo ornamentale il progetto di restauro introduce il colore dato dal fogliame e dalla fioritura di Lavanda, Teucrium, Weigelia e Abelia. Al di sotto della Magnolia viene creata un’aiuola con piante ornamentali da ombra. Nel giardino rimangono ancora la “grottesca” a forma di cuore con una gradonata a doppia rampa e la vasca circolare anch’essa decorata con grottaglie.“Considerati gli scarsi interventi di manutenzione del giardino – sottolineano i progettisti - abbiamo preferito sostituire la fontana con una fioriera circolare sempre in roccaglie, con seduta in marmo travertino”. L'ipotesi di restauro è stata preceduta da una “lettura del giardino”che ha consentito di distinguere gli accessi, i viali principali, i manufatti, le aree funzionali i comparti e gli elementi primari della vegetazione come boschetti, prato, siepi, parterre, etc e a risalire all'esatta ubicazione delle piante. I progettisti sono risultati vinctori del concorso promosso dall'Associazione di Studi Sismondiani che aveva come obiettivo proprio la presentazione di progetti per il recupero del giardino di Villa Sismondi. La commissione giudicatrice era composta da Lucia Tomasi Tongiorgi, delegata del rettore per le iniziative culturali, Anna Maria Pult Quaglia, vicepresidente dell'Associazione di Studi Sismondiani, Giacomo Lorenzini e Galileo Magnani, professori dell'Università di Pisa. Il nostro auspicio è che questa ipotesi progettuale possa tornare a restituirci qualcosa di cui “assaporare l'incanto”, per dirla come l'avrebbe detta Sismondi, contribuendo alla diffusione di quell'arte dei giardini tanto cara allo studioso ginevrino. Arte che “merita di essere posta al pari della scultura e della pittura, e che, come le altre belle arti, crea dei quadri per parlare all’animo, ed imita la natura abbellendola”, scriveva Sismondi,  quella stessa arte dei giardini, che però a parere dello svizzero “è assolutamente sconosciuta in Toscana”.

Maria Salerno

A Seano troviamo uno dei più vasti parchi-museo d’Europa dedicato ad un singolo autore che integra perfettamente cultura e interesse urbanistico. Inserito nella suggestiva cornice naturale delle colline carmignanesi, lungo una verde spianata solcata da un ruscello, il Parco accoglie ben trentasei sculture in bronzo dell’artista Quinto Martini, che ebbe modo di vederne l’inaugurazione nel 1988. Parco Museo “Quinto Martini” di SeanoProgettato dall’architetto Ettore Chelazzi su una superficie di 31530 metri quadri, il Parco sorge proprio dove l’artista è nato e cresciuto. Qui incontriamo ben oltre cinquant’anni di ricerca artistica, le opere presenti infatti sono state realizzate nell’arco temporale che va dal 1931 al 1988, e un percorso di scene agresti davvero rilassante. Scultore e pittore, Quinto Martini, venne introdotto all’arte dal maestro e amico Ardengo Soffici, fu poi collaboratore di diversi giornali e periodici, frequentando anche il Gabinetto Viesseux di Firenze, dove ebbe rapporti di amicizia con le personalità toscane e italiane culturalmente più importanti. Questo incredibile percorso formativo, unito al suo estro, ne fa uno degli artisti più rappresentativi della scultura italiana del Novecento. Appena entrati è subito chiaro l’intento con cui è stato realizzato questo Parco Museo: la creazione di uno spazio centrale e aperto, dove materiali naturali e artificiali costruiscono una perfetta cornice per ogni attività del tempo libero. Lo svago incontra dunque la qualificazione culturale e nel Parco la piccola comunità di Seano sembra davvero potersi identificare. Martini donò le sue opere proprio al Comune di Seano affinché queste potessero essere inserite in uno spazio circostanziato con una collocazione connaturata al luogo, a beneficio di tutti. Troviamo qui rappresentati molti dei temi cari all’artista, come l’Alcea, la madre col bambino, l’oste seduto in attesa del cliente, la donna che sbircia dalla porta sulla strada, i mendicanti, le figure legate alla paternità: tutti soggetti legati al vivere quotidiano del paese di campagna.

Redazione Floraviva