Editoriali

Malgrado il calo generale del comparto la Toscana del FloroVivaismo cresce a valore e mantiene il primato.

Partendo dal rapporto dati dell’agricoltura Istat 2017, la sezione dedicata al FloroVivaismo conferma alla Toscana il primato con un fatturato di 796 milioni di euro su di un totale di 2.538 milioni d’euro, seguita dalla Liguria con 347 milioni. Da notare che la media dei fatturati negli anni che vanno dal 2012 al 2016 era di 791 milioni. Quindi, malgrado a livello nazionale il fatturato sia in calo dell’1,4%, la Toscana conferma il primato e aumenta dell’1% il suo fatturato rispetto alle medie nazionali 2012-2016.
Le motivazioni del calo generale, secondo ISTAT, con il quale sono parzialmente d’accordo, sono da ascriversi alle avverse condizioni meteo che, come si sa, influenzano sia il sell-in che il sell-out del settore. D’altronde, come evidenziavo in uno dei miei precedenti editoriali, le meteo sono ormai una criticità che può divenire, se ben interpretata, un vantaggio competitivo. Lo spostarsi alle alte latitudini di climi più miti permette infatti la commercializzazione, ma anche la produzione, di piante che una volta non era possibile commercializzare. Così come particolari condizioni di arsura alle basse latitudini non permettono coltivazioni, né consumo privato, con aumenti importanti delle risorse idriche.
Le meteo, infatti, influenzano sia le rotazioni di coltivazione produttiva, che l’umore del privato, che acquista in tempi diversi rispetto ad alcuni anni fa. Qui le funzioni preposte alle strategie di settore per enti e aziende avrebbero dovuto già tenere in considerazione questi aspetti e, certamente, non potranno più esimersi dal farlo per il futuro prossimo e ripensare, appunto, strategie e tattica per affrontare il mercato.
Gli altri fattori, che hanno determinato il calo, sono la mancata capacità delle aziende di destagionalizzare le produzioni e il calo di competitività dei prodotti indigeni, che hanno subito la concorrenza dei mercati UE, alimentati da politiche di internazionalizzazione mirate più al profitto di breve periodo che a politiche di consolidamento di medio-lungo.
Non ultimo il momento congiunturale che ha ridotto il potere d’acquisto dell’utente e delle stesse amministrazioni pubbliche, una volta grandi buyer del settore. Interessante anche la ripartizione dei fatturati che un recente studio (febbraio 2018) di Banca Intesa valuta, per la PLV (produzione lorda veduta -sell-in-) di Pistoia, in 300 milioni di euro, di cui 160 esportati.

Anche grazie alla distinzione del grafico che segue,

 

 

 

sempre in base ai dati forniti da Intesa San Paolo, dove si vedono gli ettari coltivati, si capisce che non sono comprese le produzioni di Pescia e Viareggio. Gli altri due poli produttivi che, per differenza, valgono quindi circa 496 milioni di euro.
Insomma, grandi scommesse da fare nei prossimi anni per tutti i player di settore (produttori, commercianti, retailer) che dovranno lavorare di più, e meglio, su studio, ricerca, sviluppo, piani industriali, business plan e, soprattutto, su controllo di gestione e per centro di costo, strumenti che non sono certamente propri della cultura di questo segmento che sino ad oggi ha sempre preferito lavorare a vista.
Quello che emerge chiaro, anche alla luce delle nuove forme di commercio che sempre più stanno conquistando i mercati, è che chi quanto prima riuscirà a darsi una veste aziendale ben strutturata, prima riuscirà a competere a pari livello sullo scenario internazionale. Anche nelle piccole dimensioni, si dovrà contare su di una organizzazione strutturata che, condita con una maggiore agilità, potrà dare più chance per competere a pari livello dei grandi.
Ancora determinante è la raccolta dei dati, che per il FloroVivaismo è particolarmente difficile. Niente di ufficiale arriva dai maggiori mercati: Pescia, Pistoia e Viareggio. In generale l’agricoltura 2017, secondo i dati diffusi da ISTAT, ha diminuito la produzione del -4,4% ed aumentato a prezzi correnti i volumi del 3,9%. I prezzi di vendita sono mediamente aumentati del 6,8%.
Purtroppo nel FloroVivaismo questa analisi non è stata fornita. Segno che i dati non lo hanno permesso, anche se la Toscana, seconda solo dopo la provincia autonoma di Trento, ha registrato un calo produttivo generico in agricoltura del 8,8% e del valore aggiuntivo del 11,1%. Questo però non vuol dire che sia accaduto anche nel FloroVivaismo, dovremmo dunque capire se e quanto esso è cresciuto a valore, quantità e per tipologia. Mi duole allora rimarcare che la questione dati per il settore rimane determinate per compiere scelte giuste e smetterla di navigare a vista.

Andrea Vitali

Inauguriamo con questa introduzione il restyling digitale di Floraviva, sperando che l'utente non se ne accorga: questa la nostra vera sfida. 
La nostra rivista ad oggi conta circa 4.000 lettori al giorno e proprio per loro abbiamo deciso di migliorare l'architettura informatica e la grafica, oltre che l'impaginato. Questo per perfezionare l'esperienza di tutti nostri navigatori, affezionati e futuri. Migliorie quindi nella parte responsive, che nella pratica significa che tutti i dispositivi mobili conosciuti utilizzeranno e visualizzeranno la stessa versione di Floraviva. 
Abbiamo poi ovviamente mantenuto tutti i contenuti dal 2008 ad oggi, ma il nuovo codice li rende ancor più permeabili a tutte le ricerche e soprattutto, malgrado le moltissime immagini, nettamente più leggeri e quindi più facilmente consultabili anche dove le connessioni non siano il massimo. Inoltre oggi Floraviva può essere letta sui domini floraviva.itfloraviva.eu, floraviva.flowers, floraviva.biz, floraviva.media.
Anche per le pubblicità abbiamo apportato delle modifiche: oltre alla parte tabellare, che oggi è divisa per ogni argomento sia nella versione mobile che desktop, tutti gli articoli potranno godere della pubblicità native (anche in versione mobile). Rivisto poi l'impaginato con font e dimensioni più leggibili. 
Abbiamo predisposto una nuova area dove ospiteremo a breve un canale di tv streaming. Quindi seo e sem molto più performanti e l'augurio di incontrare il favore dei nostri lettori, ai quali assicuriamo comunque che non smetteremo di migliorare giornalmente tutto quanto è possibile. 
 
Insomma, una nuova e innovativa forma, ma stessi e solidi contenuti per Floraviva:
 
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Andrea Vitali

 

Anche in Spagna, patria di quell'olivicoltura super intensiva che ha garantito la leadership mondiale nella produzione di olio d'oliva, si fa strada l'attenzione agli oliveti storici di cultivar autoctone di pregio, così come alla tutela del paesaggio olivicolo e al binomio olivicoltura-turismo.
È circolata nelle ultime settimane la notizia che una decina di cooperative olivicole e frantoi spagnoli hanno creato un'associazione per salvare il patrimonio di circa 5.000 olivi millenari della varietà locale Farga radicati nel territorio fra Valencia, la Catalogna e la provincia di Aragona. Già da molto tempo infatti si era smesso in Spagna di coltivare piante di olivo di questa cultivar, perché meno produttive, e tali alberi venivano sradicati e utilizzati come piante ornamentali di parchi e giardini. Le piante dei nuovi oliveti intensivi e super intensivi per la produzione su larga scala di olio d'oliva erano delle cultivar Picual e Arbequina. Il progetto dell'associazione prevede l'impegno dei soci all'acquisto di olive e olio degli olivi millenari a prezzo assai più alto di quello del mercato ordinario (si parla del doppio), la creazione di due musei, accordi per la vendita dell'olio nei ristoranti ecc.
Questa notizia è rilevante per il dibattito in corso, e ben documentato da Floraviva, riguardo al modello di olivicoltura a cui l'Italia dovrebbe puntare? Sì, ma entro certi limiti. Lo è nella misura in cui toglie freccie all'arco dei fautori in Italia del tutto intensivo e super intensivo, cioè dell'agricoltura che deve pensare solo a se stessa, alla propria produttività e basta, senza preoccuparsi del contesto in cui si cala e di altri settori dell'economia con cui interagisce. Poiché se anche nella patria dell'olivicoltura super intensiva si capisce che c'è spazio anche per un altro tipo di produzioni olivicole, meno orientate alla quantità e più alla qualità e alla interazione con il turismo, allora vuol dire che non è campato in aria questo modello di olivicoltura più tradizionale, con costi di produzione ma anche prezzi di vendita più alti per l'olio d'oliva extravergine di qualità e legato al territorio. Anzi, non è azzardato leggere l'intera operazione sugli olivi tradizionali Farga come una contromossa del marketing spagnolo per contrastare i piani dell'olivicoltura italiana che dalla sinergia fra olio e paesaggio potrebbe trarre molti vantaggi.
Su questo non ci sono dubbi, tale modello tendenzialmente tradizionale ha una ragion d'essere economica e uno spazio di mercato. Tuttavia la lezione si deve fermare qua. Intanto perché quest'operazione di marketing degli spagnoli mi pare avere un grosso punto debole: anche se dal punto di vista ornamentale gli olivi Farga sono davvero super nella loro maestosità, la qualità dell'olio che se ne ricava non si è mai fatta apprezzare e c'è chi parla addirittura di olio alquanto scadente, sia dal punto di vista organolettico che salutistico. Ma soprattutto nel senso che non è lecito dedurre dalla operazione Farga che il modello dell'olivicoltura tradizionale legata al paesaggio debba essere l'unico da seguire. Tutt'altro! La Spagna, che è una potenza anche dal punto di vista turistico, capisce che deve dare un po' di spazio anche a tale modello di olivicoltura, ma si guarda bene dal rinunciare all'olivicoltura super intensiva, che resta il modello prevalente, quello che le permette il primato produttivo. E a questo proposito va ricordato che l'olivicoltura intensiva e super intensiva spagnola non si limita alle cultivar Arbequina e Picual, ma include anche la Arbosana e la Sikitita, frutto di un programma di miglioramento genetico a partire dall'incrocio fra Arbequina e Picual.
Dunque anche in Italia non c'è motivo per restare attaccati a pregiudizi verso modelli intensivi del genere teorizzato recentemente dal Cno (vedi intervista a Simone Cagnetti) e accettato anche da esponenti del Coripro (vedi intervista a Pietro Barachini) e, a mio avviso, neanche verso il super intensivo, nelle aree del territorio adatte, che esistono, e dove ciò non danneggia il paesaggio. Una preclusione aprioristica e assoluta verso tali modelli sarebbe irragionevole, perché è rischioso rinunciare alla diversificazione produttiva puntando tutto su un solo modello di olivicoltura, un modello d'elite che mira a produrre oli da 15 euro al kg e oltre, e in quantità ridotte rispetto a quelle degli altri modelli. Anche perché, senza mantenere certi livelli produttivi, nonostante l'alta qualità dei suoi oli, l'olivicoltura italiana finirebbe per contare sempre meno nello scenario internazionale di settore. E non va dimenticato che limitare la ricerca scientifica applicata all'olivicoltura a solo certe tipologie di olivi e oliveti potrebbe renderla più sterile, meno efficace, e soprattutto farci perdere l'opportunità di identificare varietà autoctone di pregio adatte anche a modelli intensivi e super intensivi ma al tempo stesso capaci di dare olio di alta qualità e dotato delle proprietà desiderate, sia dal punto di vista organolettico che salutistico.
L'Italia ha bisogno dunque di politiche olivicole aperte, di una sorta di "pluralismo olivicolo" in cui ci sia posto per vari approcci all'olivicoltura: il modello tradizionale rivisitato e direzionato verso l'alta gamma, un modello intensivo adatto alle caratteristiche del nostro territorio e capace di produrre in maggiore quantità oli d'oliva di buon livello qualitativo a prezzi medi, e infine anche un modello super intensivo in grado di raggiungere i massimi livelli di efficienza produttiva così da offrire al mercato un prodotto a basso prezzo e concorrenziale con quelli spagnoli e nordafricani. Quale dei tre modelli avrà più spazio saranno il mercato, le imprese e le esigenze dei territori, tenendo conto anche di altri settori come il turismo, a dirlo. L'importante è evitare faziosità ideologiche aprioristiche e rigidità in un senso o nell'altro.
Tuttavia, un punto va sottolineato con forza. In ognuno dei tre modelli di olivicoltura adottati sarà indispensabile utilizzare piante di ulivo autoctone ad hoc. Molto del successo futuro dei nostri produttori di olio, anche se seguiranno l'approccio intensivo o quello super intensivo, dipenderà dall'adeguatezza e qualità del tipo di piante di olivo che sceglieranno. E chissà che un domani non potremo assaggiare oli extravergini italiani di oliveti super intensivi tanto buoni e sani quanto quelli tradizionali! Cioè quell'olio "super tuscany" a cui ritengo dobbiamo puntare: un olio extravergine di elevata qualità, prodotto però da piante con requisiti tali da consentire la super produzione e la raccolta meccanizzata. 
 
Andrea Vitali

 

La condivisione dei dati e dei risultati della ricerca, senza passaporti, è la cura giusta per quella che potremmo definire la “Green Valley” della Valdinievole e, richiamando il nome del tavolo tecnico recentemente deliberato dal sindaco di Pescia Oreste Giurlani, il baricentro della Toscana “verde-floreale”.

Come ha sostenuto non molto tempo fa Fabiola Gianotti, direttrice del Cern di Ginevra, il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle (dove hanno scoperto la particella di Dio o bosone di Higgs e vent’anni prima Tim-Berners-Lee inventò il web), «la passione per la conoscenza è un valore universale che non conosce passaporti». Al Cern lavorano tremila scienziati di differenti nazioni che sono tra loro anche in guerra. Ma lì tutti sono uniti dalla passione per la conoscenza condivisa e la ricerca in comune. Nel settore orto-florovivaistico purtroppo abbiamo poco a che fare con quello spirito. Eppure in uno scenario economico e sociale in forte cambiamento, ma con ancora scarse prospettive di crescita e in cui la meteorologia fa in agricoltura il bello e il cattivo tempo in tutti i sensi, ci sarebbe davvero estremo bisogno di quell’atteggiamento mentale, precondizione per definire una policy chiara in cui (quasi) tutti possano riconoscersi, aderendovi con convinzione e impegno.

Continuiamo invece a non fornire indirizzi di policy sui quali ricerca e tecnici, da un lato, e imprese e manager, dall’altro, possano elaborare progetti economicamente sostenibili. Ma se queste scelte di indirizzo non verranno fatte, e in tempi piuttosto rapidi, a mio avviso, il comparto agricolo, e nello specifico orto-florovivaistico, della Valdinievole sprofonderà in una crisi irreversibile, senza futuro per i nostri giovani. Tali scelte non potranno non tener conto dei segnali che il geoide terra sta lanciando e che ci conducono inevitabilmente ai mantra della sostenibilità ambientale ed economica, del rispetto per il nostro pianeta, della lotta alle emissioni di CO2 e veleni.

Con queste premesse, provo qui a indicare almeno le dimensioni generali del distretto floricolo, secondo quanto ricavato dalle informazioni che mi passano sotto gli occhi nell’attività di editore di questa rivista, ma anche dei dati che, seppur aggregati, sono frutto di mie indagini come consulente di marketing e comunicazione dal 2012 per importanti soggetti del settore. Del resto non si può non partire da una precisazione dei numeri, anche se il settore florovivaistico sembra averne quasi paura (come confermato anche dal coordinatore del Distretto florovivaistico della Liguria che in un’intervista su Floraviva ha parlato della difficoltà di avere dati completi sul settore). Ebbene, quale è il valore del Distretto floricolo interprovinciale Lucca – Pistoia (che ha come centri propulsori Viareggio e Pescia)? Secondo le mie analisi vale intorno a 350 milioni d’euro al sell-in (il prezzo di cessione dal produttore o importatore al commerciante, retailer o gdo e gds) e 4000 addetti impiegati. Di questi 350 milioni, circa il 40% è commercializzazione, ovvero prodotto rivenduto da commercianti. Ne deriva che la produzione vale circa 210 milioni, su un totale nazionale per l’intero florovivaismo di 2 miliardi e mezzo di euro (di cui il 45% da floricoltura e il 55% da vivaismo) da parte di 21 mila imprese (14 mila floricole e 7 mila vivaistiche) e 100 mila occupati [fonte Agrinsieme].

Questa è solo una cornice quantitativa di riferimento, ma utile per orientarsi a chi si accosta al settore. A partire da essa bisognerebbe lavorare a fondo per ottenere tutti i dati più specifici necessari all’elaborazione di strategie politico-economiche efficaci. Ma, come dicevo, c’è una ritrosia di fondo verso la trasparenza dei dati e il settore sembra bloccato o fare catenaccio quando si arriva a toccare il fattore “informazione”, mentre là fuori nel mondo dell’economia che funziona e corre le nuove tecnologie stanno portando a disposizione di tutti informazioni e modelli di gestione. Come mai questo catenaccio o paura dei dati? Da un lato, c’è la responsabilità dei piccoli produttori che, per pigrizia o scarsa consapevolezza del contesto di mercato, non riescono a capire l’importanza di fornire più informazioni e feedback ai pubblici decisori e all’opinione pubblica per favorire scelte che non li penalizzino e anzi permettano loro di cambiare passo sviluppando le proprie potenzialità. Dall’altra, chi ha capito la situazione non ha nessun interesse a divulgarla per non perdere le posizioni di vantaggio conquistate grazie ai successi economici degli anni passati.

Il fatto è, a mio avviso, che l’attuale configurazione della domanda-offerta ha reso più appetibili, o comunque più facilmente commercializzabili, in questo momento, i prodotti ad alta rotazione, cioè le produzioni della Valdinievole e della Versilia, rispetto a quelle tipiche del vivaismo ornamentale pistoiese. Ad esempio, le annuali e le fioriture, invece che le alberature e le piante coltivate in pieno campo solo verdi, la cui commercializzazione è più legata all’edilizia e alla pubblica amministrazione e si trova quindi in grave difficoltà in questa fase.

E questa considerazione mi porta a dire la mia su quello che è oggi il nervo scoperto di un settore con buone potenzialità come la floricoltura, nella Regione Toscana, ovvero il Mercato dei fiori di Pescia gestito dal Mefit (Mercato dei fiori della Toscana – città di Pescia), sulla cui economicità e attualità commerciale si sta dibattendo, con troppe faziosità da un lato e dall’altro, da molti, troppi anni, senza arrivare a una conclusione convincente nemmeno sul piano teorico. Alla luce di quanto detto sopra e di quanto sto per aggiungere, il Mefit è un soggetto estremamente competitivo e “pericoloso” per i soggetti concorrenti, in primis toscani, nella commercializzazione di piante e fiori. Da lì passano infatti 80 milioni di euro (ricavati dalle dichiarazione degli operatori iscritti sui loro fatturati d’impresa) e il mercato costa agli stessi operatori circa 870 mila euro ovvero poco più dell’1%. Bastano queste cifre per riassumere l’estrema competitività del Mefit. Certo, una volta che la Regione, proprietaria dell’immobile, avrà fatto il suo dovere rimettendolo a posto (se mai avverrà), spetterà al Comune e agli operatori farsi carico di una sua puntuale manutenzione, a fronte di una concessione pluriennale, e questo potrebbe comportare un graduale aumento delle tariffe e del rapporto fra costo e fatturati. Ma andare in un nuovo anonimo capannone costerebbe assai di più a Comune e privati e significherebbe rinunciare ai tanti punti di forza del mercato dei fiori di Pescia. A meno che la Regione non decida proprio di abbandonare al degrado la struttura rinunciando a riqualificarla tout court oppure di venderla a ipotetici compratori di altri settori. A quel punto, giocoforza, si dovrà trovare un nuovo immobile.

Ma perché credo che il Mefit sia altamente competitivo, anche a confronto con gli Olandesi (che per inciso hanno strutture gigantesche per la commercializzazione dei fiori)? La struttura è appunto relativamente piccola per il settore. E quindi flessibile e poco costosa, dal punto di vista degli operatori, rispetto a forme alternative classiche di commercializzazione. La posizione, poi, è ineguagliabile: accanto alla stazione ferroviaria e servita da comode strade. Una struttura che attualmente è energivora, vero, ma che con un progetto architettonico sostenibile affidato a menti giovani può essere trasformata da energivora a sostenibile: l’opera di Savioli e Santi non va né abbandonata né distrutta, ma recuperata e trasformata in fonte di energia pulita per la collettività con un impianto fotovoltaico che la renda autosufficiente (magari collegandolo a un altro di nuova generazione che produce energia elettrica senza emissioni per mezzo della fermentazione elettromagnetica dei rifiuti umidi o vegetali: fiori, sfalci). Questo consentirebbe di segnare le provincie di Pistoia e di Lucca, ma anche la regione di un fregio green distintivo, il simbolo della Green Valley di Pescia. Sono convinto che potremmo diventare un modello a livello europeo, creando interesse anche per il turismo.

L’edificio di Savioli e Santi si adatta perfettamente ai nuovi scenari economici e si può avvantaggiare del fatto che oggi molte tecnologie sono più a buon mercato di un tempo, per cui non sono più necessari grandi investimenti per la riconversione alle energie rinnovabili degli immobili. Inoltre alla nostra agricoltura serve una logistica snella ed efficiente/affidabile, oltre ovviamente ai nuovi sistemi di comunicazione sul web e sui social media e a una vendita di prossimità (sell-out) complementare, che già di per sé ridurrebbe l’impatto ambientale. Insomma tale edificio può essere il contenitore quasi perfetto per quei “servizi condivisi” ai piccoli agricoltori di cui ha bisogno la Valdinievole, così come tutta la Toscana agricola, fatta da piccole aziende, per essere competitiva sui mercati globali.

Sin qui sulla struttura del mercato dei fiori di via Salvo d’Acquisto come sede per il commercio all’ingrosso di fiori e piante dalle grandi opportunità. Certo, per la sostenibilità economica della struttura, anche una volta rimessa a posto sul piano del consumo energetico, ci vogliono delle funzioni complementari al mercato che la facciano girare per le altre ore del giorno. E quindi si apre il capitolo di un progetto multifunzione o polifunzionale, con capitali privati, adatto all’attuale contesto territoriale. Prospettive e idee non mancano in tal senso, ma senza segnali di volontà di impegnarsi da parte delle forze economiche e politiche del territorio, a cominciare dagli operatori del mercato, si va poco lontano.

Tutti i tentativi fatti sinora dal Mefit, in collaborazione con il mio team di Diade adv, di dare una mossa all’ambiente con iniziative tese a ridare visibilità al mercato dei fiori di Pescia o a impostare un piano strategico più a lungo termine con cui partecipare ai bandi dei Pif hanno avuto scarsissimo seguito. Nemmeno per manifestazioni facili da capire, quali Christmas Flower Trend, che poi sono state esportate in fiere importanti di livello nazionale come Flormart, si è riusciti ad avere una partecipazione degna di questo nome da parte degli operatori del mercato, in particolare dai produttori. Anzi è spesso mancata la voglia di venire persino agli incontri introduttivi in cui si spiegava di cosa si trattassero le varie iniziative: un rifiuto apriori, dunque.

L’unica spiegazione logica per tale comportamento, se si esclude il masochismo, è che, malgrado i continui lamenti, molti produttori forse preferiscono che non cambi niente, perché tutto sommato si continua a campare egregiamente in questo sistema poco chiaro. Peccato che l’immobile si stia progressivamente deteriorando e che questo atteggiamento non darà futuro a nessuno. Per chi ancora non l’avesse compreso: siamo giunti al capolinea e il mercato dei fiori, se non si sarà in grado di progettare un modello di sviluppo credibile all’interno della struttura, sarà chiuso a breve, con buona pace sia dei furbetti che degli ingenui.

Più in generale, l’obiettivo deve essere, in tutti i modi possibili, restituire margine alla produzione, ma qui nella terra della Nievole e in quella del Pescia pare non siano i tempi maturi. Anche quando per i danni fatti al nostro pianeta la primavera è già arrivata da tempo. Non mi resta che sperare in giovani non troppo italioti che alzando la testa si fidino di coloro che credono che innovare e condividere sia l’unico modo per stare tutti meglio in una Green Valley.

Andrea Vitali

E’ ai blocchi di partenza la seconda edizione di Myplant & Garden, la manifestazione che si tiene nel quartiere fieristico di Milano Fiera a RHO da domani al 26 febbraio. Quali sono le aspettative?
Gli organizzatori, che fanno parte di un consorzio di produttori composto da Vivai D’Adda, Floricoltura Pisapia, Florpagano, Florsistemi, Nicoli, Organizzazione Orlandelli, Vigo Gerolamo e Francesca Vigo, Cattaneo Bruno, Christensen, Garden Service, Catusmania, Artigianfer, Corino Bruna e Giambò piante, dichiarano, alla luce dei risultati ottenuti nella prima edizione e grazie alle adesioni alla seconda edizione (420 espositori, 14.000 mq e 20 attività promozionali e congressuali), di voler dare risposte concrete al mercato florovivaistico. Vedremo in che misura sapranno tener fede a questa promessa.
Nella prima edizione Myplant & Garden poté avvantaggiarsi anche della forte spinta mediatica ricevuta dall'Expo e della curiosità per la novità da parte degli operatori del settore florovivaistico, oltre che del malcontento degli stessi per la progressiva involuzione nel corso degli anni di quella che era la fiera leader di settore in Italia: Flormart, il salone internazionale del florovivaismo di Padova.
Oggi il contesto è un po’ diverso, perché gli effetti Expo e novità sono passati, e Myplant & Garden dovrà guadagnarsi i galloni sul campo e nel merito. Anche se il panorama fieristico italiano rimane ancora, dal suo punto di vista, apparentemente favorevole, visto che è caratterizzato, a fronte dell’ulteriore potenziamento e specializzazione dei maggiori player esteri (ad esempio Ipm Essen o Salon du Végétal di Angers), da molte incertezze e una relativa confusione di idee, senza l’emersione di fiere concorrenti in piena salute. Ciò, nonostante i timidi, e per ora infruttuosi, tentativi di Rimini Fiera di imporsi con il Flora Trade Show e i promettenti progetti di innovazione nei contenuti e nel format di Flormart - gestita da 2 anni da Daniele Villa, amministratore delegato di PadovaFiere - sui cui esiti sul fronte commerciale è però presto per dare un giudizio definitivo. E nonostante un sistema fieristico nazionale in forte fermento, con l’attivismo di Aefi – Associazione esposizioni e fiere italiane, che rappresenta la più grande area espositiva italiana: 670mila metri quadrati dislocati in 19 quartieri fieristici, tra cui Piacenza, Bergamo, Brescia, Riva del Garda, Reggio Emilia, Modena, Ferrara, Carrara, Cesena. Il fatto è che, malgrado tali segnali interessanti e poche lodevoli eccezioni quali l’alleanza fra OroArezzo e VicenzaOro, le fiere italiane continuano per lo più a ballare da sole e a non far fruttare a dovere l’enorme superficie espositiva di cui dispongono (con 2.200.000 mq è la quarta nazione mondiale per metrature adibite a fiere). E questo non saper fare sistema vale in particolare nel settore florovivaistico.
Ebbene, in tale contesto generale, Myplant & Garden, se saprà confermare - anzi consolidare e perfezionare nei contenuti - i risultati della prima edizione, ha la chance di affermarsi davvero come fiera leader nazionale. Anche se, per il bene del florovivaismo nazionale, sarebbe meglio ancora, in assenza di un’unica grande fiera di settore in Italia veramente internazionale, attivare «un coordinamento nazionale del sistema fieristico» florovivaistico, come suggerì il presidente di Cia e responsabile nazionale di Agrinsieme, Dino Scanavino, durante la premiazione di nòva_green all’ultima edizione di Flormart, lo scorso settembre.
Dal canto mio, aggiungo che, per restare competitivi e non perdere ulteriore terreno, serve – come ho cercato di fare con Diade adv, collaborando a Flormart 2015 - riformulare una offerta fieristica con contenuti qualitativamente alti, tali da meritarsi di indossare il brand made in Italy come in altri settori. Non possiamo essere qualitativamente inferiori ai tedeschi o ai francesi proprio in un comparto che ci vede leader europei quale il vivaismo ornamentale e in un altro come la floricoltura in cui siamo secondi (forse a pari merito con la Francia) dietro soltanto all’Olanda. E non possiamo esserlo in particolare sul terreno della qualità estetica, in cui noi italiani sappiamo di solito fare la differenza e creare valore aggiunto, grazie alla nostra professionalità e creatività che ci consente di dettare o ispirare le tendenze del gusto.
Ci vuole dunque uno stile verde italiano, o meglio ancora uno ‘stile del verde fiorito contemporaneo italiano’ (che non deve rinnegare l’eredità storica, ma anzi includerla, avendola assimilata, in qualcosa che vada ben oltre e guardi a nuovi orizzonti). E bisogna fare in modo che questo stile del verde fiorito italiano venga per prima cosa riconosciuto e poi apprezzato sui mercati internazionali. Vasto programma, indubbiamente, ma anche una sfida che vale la pena di affrontare, come testimoniato nell’ultimo anno dai successi internazionali (e dalle cifre dell’export) del made in Italy agroalimentare.
Intanto, alla vigilia dell’apertura, un in bocca al lupo e un augurio di buon lavoro a Myplant & Garden.
 
Andrea Vitali