Olea: un nuovo metodo per convalidare l’italianità degli oli
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A Olea 2012, all’Istituto agrario Anzilotti di Pescia il 7 dicembre, sono intervenuti Maurizio Servili e Luciana Baldoni, coordinatori del PROGETTO CHE HA PORTATO A UN nuovo «sistema di rintracciabilità evoluto» dell’origine degli oli, presentato ufficialmente da Unaprol due giorni prima a Roma. Oreste Gerini, direttore dell’Icqrf DI FIRENZE, ha comunicato che i controlli anti frode nel 2011 in Toscana sono stati 450. Servili spiega perché crede nella valorizzazione della filiera olivicola tramite l’alta qualità, in linea con la recente bozza di decreto ministeriale per l’istituzione del Sistema di qualità nazionale (Sqn) Olio Extra Vergine di Oliva, che fissa parametri fisico-chimici più stringenti per gli oli italiani di qualità superiore. E sull’olivicoltura “bio” sottolinea che non aggiunge niente dal punto di vista qualitativo e chimico all’olio, a parità di altre condizioni.
«E’ un modello che serve a lanciare delle allerte su prodotti che vengono considerati italiani ma che magari italiani non sono. Quindi è un sistema che mettendo insieme analisi chimiche più analisi molecolari e rielaborandole con un sistema statistico evoluto dà un’attribuzione ed evidenzia l’alta o bassa probabilità che l’olio provenga realmente dalla zona che viene dichiarata».
Così Maurizio Servili, in margine all’edizione 2012 di Olea il 7 dicembre all’Istituto tecnico agrario Dionisio Anzilotti di Pescia, ha sintetizzato a Floraviva in cosa consiste il «sistema di rintracciabilità evoluto» elaborato da un gruppo di ricercatori dell’Università e del Cnr di Perugia, da lui coordinati insieme a Luciana Baldoni (anche lei presente a Olea 2012) e a Luciano Cruciani, che è stato presentato ufficialmente due giorni prima a Roma presso il Comando Carabinieri Politiche Agricole. Il sistema, realizzato nell’ambito di un progetto di Unaprol (il Consorzio olivicolo italiano) con un cofinanziamento del Ministero delle politiche agricole, mette insieme, come spiegato nel comunicato di Unaprol del 5 dicembre, «nuovi metodi di analisi per distinguere l’origine e le diverse varietà (cultivar), presenti negli oli extra vergine di oliva».
«In pratica – si legge nel comunicato - hanno affiancato la rintracciabilità dei documenti a quella di alcuni macro e micro componenti contenuti nell’olio extra vergine di oliva che permettono di stabilire l’origine genetica e geografica degli oli di oliva. Dall’analisi di tali composti, sviluppata su un numero rilevante di campioni di sicura origine nazionale, è stato elaborato un modello statistico in grado di validare con buona approssimazione la provenienza nazionale dell’olio». «La ricerca Unaprol–Mipaaf – si legge ancora - in particolare ha permesso di sviluppare un metodo di analisi molecolare dell’olio basato sull’impiego di marcatori Dna. Attraverso questa procedura si è in grado di distinguere varietà di olivo non italiane dei Paesi dai quali vengono importate grandi quantità di olio. Il metodo è stato applicato su diversi campioni di origine italiana consentendo di accertare l’assenza di contaminazione con varietà provenienti da Spagna Grecia e Tunisia. Il progetto […] ha permesso inoltre di implementare un sistema di gestione (G.I.S.) in grado di fornire in tempo reale, in risposta ad una interrogazione con un campione incognito, la rispondenza, con diversi gradi di attendibilità, sulla provenienza del prodotto».
Ed è proprio di alcuni aspetti di questo complesso sistema di analisi degli oli d’oliva che hanno parlato Maurizio Servili (Università di Perugia) e Luciana Baldoni (Cnr di Perugia) nei loro interventi all’incontro presso l’Istituto Anzilotti di Pescia (vedi anche nostro articolo “La ‘Tracciabilità e rintracciabilità degli oli’ a Olea 2012”), intitolati rispettivamente: “Tecnologie e biotecnologie degli alimenti: la qualità e la rintracciabilità analitica dell’olio”, “Riconoscimento della composizione varietale degli oli extravergine di oliva mediante test del DNA”. Incontro che, come ha ricordato la preside dell’Istituto Siriana Becattini aprendo i lavori, è un appuntamento fisso che ogni anno la scuola dedica a temi riguardanti il mondo dell’olivicoltura e dell’olio, che sono centrali per l’economia pesciatina. E che aveva fra i relatori anche Fabrizio Filippi, presidente del Consorzio per la tutela dell'Olio Extravergine di Oliva Toscano IGP, che ha presentato “L’esperienza e le prospettive dell’Igp toscano”, e Oreste Gerini, direttore dell’ufficio fiorentino dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari (Icqrf) del Ministero delle politiche agricole.
Quest’ultimo, sentito dopo il suo intervento intitolato “Le frodi nel settore degli oli di oliva”, in cui aveva illustrato la ricca e fantasiosa casistica di trucchi, infrazioni e reati commessi in questo ambito, ha fatto sapere che nel 2011 in Toscana sono stati effettuati 450 controlli che hanno portato a una ventina di contestazioni di infrazioni amministrative, mentre a livello nazionale i controlli sono stati 5825 e le contestazioni circa 600. «L’olio – ha commentato Oreste Gerini - in Toscana, dopo il vino, è il settore più controllato. E di illeciti ne vengono trovati tanti, però soprattutto documentali. Dal punto di vista analitico grandi elementi non ci sono. Naturalmente ci sono stati i casi recenti di cronaca». «Il settore oleario – ha spiegato - è da sempre un settore in cui le frodi sono state molte. Attualmente sono ancora presenti sicuramente la frode della deodorazione, ossia l’eliminazione di cattivi odori e sapori, la frode della colorazione di oli di semi con clorofilla; e poi soprattutto ci sono le frodi sulla diversa origine del prodotto rispetto a quella dichiarata». A ciò vanno aggiunte le molte «etichette borderline», che «però non sono frodi»: «sono etichette assolutamente regolari e dovrebbe essere la cultura del consumatore a permettergli di capire quello che dice l’etichetta relativamente all’origine dell’olio e quello che magari invece è solo un marchio commerciale».
«L’analisi molecolare degli oli – ci ha spiegato Luciana Baldoni semplificando i contenuti della sua relazione - è basata sul principio che nell’olio si conserva il Dna delle varietà da cui è stato estratto. E quindi analizzando quel Dna è possibile risalire a quali sono le varietà che sono state impiegate per farlo o, nel caso di frodi e quindi di miscelazioni con oli di altre specie, anche accertare appunto la presenza di queste altre specie. E’ una tecnologia in evoluzione: sono stati messi a punto già i protocolli per estrarre il Dna dall’olio. Si riesce ad estrarre Dna anche da oli rettificati, filtrati, deodorati, ecc., anche se in quantità veramente minime, e il Dna è molto frammentato. Non si possono utilizzare i marcatori che sono stati impiegati per la caratterizzazione della varietà. Quindi bisogna fare un progetto specifico per identificare nuovi marcatori che siano adatti per questo scopo e che devono essere varietà-specifici o specie-specifici».
Luciana Baldoni ha poi ricordato in cosa consiste il progetto Olviva: «un progetto interregionale che ha coinvolto quasi tutte le regioni olivicole, tranne l’Abruzzo, l’Emilia Romagna e il Veneto, che prevedeva diverse attività. E, per quanto riguarda questo aspetto dell’identificazione delle varietà, l’identificazione con marcatori SSR o con microsatelliti delle 200 e oltre varietà italiane principali». Si è arrivati cioè a «una banca dati con una scheda per ciascuna varietà e questa scheda è stata registrata al Ministero dell’agricoltura nel registro nazionale delle varietà». Baldoni ha osservato che delle oltre 500 varietà di olivi identificate in Italia con vari metodi fino ad ora, che fanno sì che l’Italia abbia il 42% del patrimonio varietale olivicolo del mondo, almeno 200 potrebbero essere interessanti a fini produttivi. «Oggi il 95% della produzione nazionale viene fatta con 10 varietà, ma in un’ottica di valorizzazione delle varietà locali penso che si potrebbe pensare a circa 200 varietà».
E su questo tema della valorizzazione e difesa dell’olivicoltura italiana - caratterizzata da una biodiversità e una qualità mediamente molto più alte (come confermato anche dalla composizione chimica dei nostri oli extra vergine) ma anche da costi di produzione assai maggiori che nel resto del mondo - abbiamo fatto alcune domande a Maurizio Servili.
Come possiamo difenderci dall’espansione dell’olivicoltura intensiva spagnola o nord-africana?
«La strategia nostra – ha risposto Servili - è quella di proteggere le produzioni nazionali, o meglio la qualità delle produzioni nazionali. L’unico elemento che differenzia ormai l’Italia dal resto del mondo è il fatto che mediamente l’olio italiano ha una qualità superiore rispetto all’olio che viene importato da altri Paesi. Quindi dobbiamo munirci di sistemi sia giuridici che analitici che ci permettano di proteggere le produzioni di qualità». E a questa esigenza dà una risposta proprio il sistema di rintracciabilità evoluto elaborato dalla sua equipe.
Riguardo poi alla possibilità di far leva sulla ricchezza di cultivar dell’Italia, Servili ha osservato: «già si fa leva su ciò, per chi è in condizione di farlo, perché si lavora sulle dop, sui monovarietali, c’è molto interesse sugli oli monovarietali, un po’ a modello del vino. Perché i monovarietali hanno il vantaggio che in effetti queste differenze che noi abbiamo visto si esaltano, perché se si fanno le miscele, i blend, si tende invece ad avvicinare le posizioni […]. Quindi il monovarietale è la via per l’alta differenziazione del prodotto».
Servili dunque crede nella strategia dell’alta qualità. «E’ l’unica opportunità – dice - perché i costi di produzione in Italia sono minimo tre volte quelli spagnoli, e quindi quattro-cinque volte quelli del sud del Mediterraneo. E quindi su questo non c’è storia. Sulla qualità la storia c’è, perché mettendo insieme alta qualità e differenze e quindi biodiversità, si riescono a produrre prodotti unici che gli altri Paesi non sono più in condizioni di fare. E quindi venduti a prezzi più alti. Questo è il gioco che dobbiamo portare avanti. Anche perché l’olio extra vergine italiano, quello che va sul mercato, saranno 2 milioni di quintali d’olio al massimo, ma proprio a mettere tutto sul mercato quello che non è autoconsumo. Significa che su una produzione [mondiale, ndr] che è di 3 milioni di tonnellate è niente, è una nicchia. E quindi potrebbe essere la nicchia, come nel mercato dell’auto abbiamo la nicchia delle super car, che le pagano però di più di quanto si pagano le auto di serie».
Del resto questa sembra una strada intrapresa anche dal Ministero delle politiche agricole. Che proprio a fine novembre ha fatto passi importanti in tale direzione con la pubblicazione della bozza di decreto ministeriale per l’istituzione del Sistema di qualità nazionale (Sqn) Olio Extra Vergine di Oliva riconosciuto ai sensi dell’art. 22, paragrafo 2 del Reg. (CE) n. 1974/2006: un sistema volontario, con relativo marchio, che dovrà contraddistinguere gli oli di oliva extra vergine italiani di qualità superiore (nel sito web del Mipaaf sono consultabili decreto e disciplinare, con l’importantissima tabella delle proprietà che esplicita i limiti dei parametri fisico-chimici più significativi, più stringenti di quelli dei normali extra vergine: vedi nel verbale).
Sui vantaggi o meno dell’olivicoltura bio, ecco il pensiero di Servili: «dal punto di vista qualitativo» e «della composizione chimica dell’olio» non ci sono differenze fra tecniche biologiche e convenzionali; «a parità di varietà, a parità di ambiente e a parità di stadio di maturazione del frutto danno, lo stesso prodotto». Le differenze sorgono solo «dal punto di vista dell’impatto ambientale della coltura, perché le coltivazioni biologiche comportano comunque una riduzione dell’uso dei pesticidi, dei fitofarmaci – almeno dovrebbero -, e una riduzione dei concimi inorganici».
Lorenzo Sandiford