Da Canapa Sativa Italia proposte per rilanciare la nostra canapicoltura
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L’associazione Canapa Sativa Italia, membro del nuovo tavolo tecnico di filiera, propone in primis di «chiarire la cornice normativa ed eliminare le zone di rischio per gli imprenditori, disciplinare il consumo umano del fiore e l’estrazione per fini non esclusivamente farmaceutici». Per CSI la commercializzazione del fiore di canapa non va inquadrata come quella del tabacco e bisogna «proteggere il mercato italiano della canapa alimentare e degli edibles in generale e da Big Pharma in particolare».
Che cosa succede al mercato della pianta più antica e più curativa del mondo alle nostre latitudini? E soprattutto che cosa bisogna fare per rendere più competitiva la canapicoltura italiana?
Alcune risposte a tali domande sono contenute in un recente report di Canapa Sativa Italia (CSI), associazione che mette insieme alcuni fra i più rappresentativi esponenti del comparto canapicolo del nostro Paese e che siede al tavolo di filiera costituito all’inizio di quest’anno e insediatosi a febbraio.
Sullo stato dell’arte, CSI ricorda «storiche evoluzioni normative come la sentenza del 19 novembre 2020 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) nella causa C-663/18, che tra le altre cose alza il velo (e la sanziona) sulla discriminazione del CBD come nutriente ancora presente nelle legislazioni di vari stati membri e rileva che siffatte legislazioni nazionali impediscono la libera circolazione di questa merce così come dei servizi, dei capitali e della forza lavoro ad essa sottesi». E poi anche la «storica dichiarazione dell’OMS (dicembre 2020) grazie alla quale l’ONU ha potuto stabilire che la cannabis è una sostanza terapeutica, rimuovendola hinc et nunc dalla Tabella 4 nella quale si trovano le sostanze a maggior rischio di abuso e senza alcun valore benefico», pronuncia di cui tutte le legislazioni e i tribunali nazionali «dovranno immediatamente tenere conto».
E, venendo allo specifico italiano, per CSI «la più antica, gustosa, terapeutica e nutriente pianta del pianeta - i cui scarti sono altrettanto preziosi quanto la parte nobile della pianta sia in bio-edilizia che nella produzione di carburanti green - trova nelle fertili terre e nei microclimi speciali delle regioni italiane l’habitat migliore». E, «nonostante un ostracismo che dura da oltre un secolo, la canapa industriale italiana continua ad avere appassionati e competenti alfieri in giovani agricoltori, sapienti trasformatori ed imprenditori, scienziati e ricercatori. In una parola i nuovi ‘pionieri’ di un settore antico, la canapicoltura, che ormai copre ogni spettro di una filiera di qualità: dall’agro-alimentare, alla nutraceutica, alla farmacopea».
Ma non sono tutte rose e fiori, soprattutto per le incertezze normative che ancora permangono da noi. Che cosa bisogna fare per superarle e stabilizzare il comparto in Italia rendendolo più competitivo?
CSI propone innanzi tutto di 1) «chiarire la cornice normativa ed eliminare le zone di rischio per gli imprenditori, disciplinare il consumo umano del fiore e l’estrazione per fini non esclusivamente farmaceutici». La legge c’è già, specifica la nota di CSI, è «la 242 del 2016 per la quale è possibile realizzare e mettere in commercio praticamente qualunque derivato della canapa. A non essere chiaramente disciplinata è la vendita dei derivati destinati al consumo umano e su questo c’è da colmare un vuoto legislativo».
Inoltre bisogna 2) «non inquadrare la commercializzazione del fiore di canapa alla stregua di quella del tabacco». Il fiore o il trinciato di canapa inquadrato come tabacco «perderebbe la maggior parte delle possibilità di valorizzazione del prodotto con identità artigianale – secondo CSI -, l'impianto normativo riferito a questo tipo di filiera tende ad avvilire e a spostare l'attenzione dalla maggior parte delle possibilità e utilizzi molto più sani della pianta. Per questo motivo immaginiamo un impianto autonomo, anche sostenuto da licenze e soprattutto procedure di controllo sulla qualità». «Come accade per le filiere del luppolo e del vino – argomenta CSI - il sistema consente di valorizzarne tutti i livelli. La filiera della canapa, a livello agro-alimentare, è più vicina al luppolo e alla vite anche secondo i marketing standard in definizione EU; queste ultime [filiere, ndr] - in quanto destinate alla produzione di un alcolico - sono molto burocratizzate e non sempre necessariamente capaci di garantire una competitività nel mercato europeo per gli operatori di filiera made in Italy». Dunque «gli usi più promettenti della canapa – sostiene CSI - sono quelli alimentari e devoti al wellness, non certo solo un prodotto destinato banalmente o esclusivamente al fumo che come tutti sanno rimane dannoso alla salute di per sé».
«Tabacco, luppolo e vite – aggiunge la nota di CSI - non hanno, tuttavia, neanche lontanamente le potenzialità della canapa, caratterizzata da una multifunzionalità senza precedenti. Per questo oltre che la vendita diretta con la predisposizione di un sistema di controllo e verifica della salubrità di tutti i derivati, attraverso protocolli accessibili e sicuri, sono necessari tanti interventi tesi a valorizzare la coltivazione della canapa di tutti i livelli trovando soluzioni moderne alle criticità e consentendo a questo settore di svilupparsi autonomamente». «Quello del fiore – si legge - è un segmento della filiera capace di portare milioni di fatturato e senza nessun supporto da parte di finanziamenti o di classiche misure tipiche delle produzioni agricole: questo incredibile slancio andrebbe protetto e sostenuto con interventi tesi a valorizzare e a favorire il consolidamento di queste realtà. Uno degli elementi più critici da inserire a livello normativo è il continuo rinnovarsi del pool genetico: i vecchi processi di registrazione varietale non sono più adatti al continuo e frenetico sviluppo di questo settore, la cui incredibile variabilità e la libertà di ricerca sviluppo e innovazione genetica è considerata uno degli aspetti più interessanti dal punto di vista scientifico, come evidenziano decine di illustri ricerche». «Un approccio di libero mercato, coerente con le possibilità tecniche già a disposizione – continua CSI - potrebbe garantire quindi la possibilità di lavorare liberamente per gli agricoltori, facendo nascere un ulteriore aspetto propulsivo del mercato che è quello degli incroci consentendo uno sviluppo creativo per queste piccole realtà d'eccellenza, una necessità per quella categoria che rappresenta di fatto l’ossatura della filiera italiana in questo secolo».
Altra proposta di CSI è 3) «incoraggiare e proteggere il mercato italiano della canapa alimentare e degli edibles in generale e da Big Pharma in particolare». Infatti, viene sostenuto, «per natura la canapa non può essere relegata a un banale, anonimo e standardizzato succedaneo del tabacco: le destinazioni d’uso reali sono ben più variegate e il consumo può avvenire in diversi modi, tutti decisamente più salutari rispetto al fumo, ma neanche rimanere di esclusivo appannaggio delle officine farmaceutiche». La realizzazione di estratti certificati, spiega CSI, «è possibile oggi solo tramite autorizzazione UCS riservata alle officine farmaceutiche che realizzano API (Active Pharmaceutical Ingredients) ai sensi della L. 309/90: si tratta di ingredienti specifici per farmaci, che non sono però utilizzabili dall’industria alimentare e cosmetica». «In relazione al mondo della canapa industriale – continua la nota - il gap legislativo italiano non ci consentirà di produrre per competere nel mercato europeo (dove sono già autorizzati impianti di estrazione per destinazione novel food / cosmesi / semilavorati) e in violazione del principio di mutuo riconoscimento oggi già subiamo l’importazione dall’estero a prezzi molto più competitivi di quanto da noi vietato».
«La legge, inoltre, - prosegue il testo - prevede un esclusivo rapporto tra l’industria farmaceutica e il produttore selezionato svilendo le possibilità che il libero mercato potrebbe offrire. Non c’è competizione sulla qualità del prodotto, il produttore deve avere già un contratto e conferire tutto il suo prodotto all’industria ancora prima di realizzarlo, quindi impedendo di fatto la possibilità di confrontarsi con gli altri players sul mercato, di valutare diverse offerte, di differenziare i propri prodotti, di avere diversi clienti, fornitori, di lavorare il proprio prodotto presso un laboratorio autorizzato e rivenderlo a proprio marchio, impedendo a queste aziende uno sviluppo di un'identità, caratteristica invece di tutte le aziende del Made in Italy presenti sul panorama internazionale, dovendo trovare le modalità di autorizzare degli impianti a questo specifico scopo ed evitando le logiche della L. 309/90, o quantomeno distinguendo i processi farmaceutici da quelli più economici del settore alimentare o cosmetico in larga scala».
Eppure, afferma CSI, «la destinazione alimentare del fiore, ma soprattutto dei diretti derivati detti edibles, rappresenterebbe un volano economico e culturale non indifferente e un aiuto alla filiera con un grado di evoluzione che integrerebbe tutti i suoi comparti a destinazione umana, quale probabile approdo di un consolidamento del novel food». «Nell’ottica di valorizzare la produzione artigianale – aggiunge la nota - purtroppo le procedure relative all'application di un novel food, a causa della dimensione produttiva di molte piccole realtà italiane, sono un ostacolo insuperabile per le stringenti e costose procedure necessarie alla registrazione». E «l’Italia ha un mercato alimentare troppo variegato per poter puntare su pochi prodotti standardizzati».
Redazione