Quali impianti per aumentare la produzione d’olio italiana

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Al convegno dei Georgofili del 29 settembre su “Olivicoltura oggi e domani: tradizionale, intensiva, superintensiva” dati sull’olivicoltura italiana e spunti dalla ricerca e dai professionisti su che cosa fare per aumentare la produzione di olio di oliva made in Italy. L'intervento di inquadramento dello stato dell'arte dell'olivicoltura italiana del prof. Riccardo Gucci, il prof. Franco Famiani su alcune ricerche su come accorciare i tempi per arrivare alla piena produzione degli impianti intensivi, le sperimentazioni di impianti ad alta densità in Sicilia del prof. Tiziano Caruso con gli ottimi risultati della cultivar Calatina, l'appello di Aleandro Ottanelli a insistere nella ricerca di cultivar italiane adatte alla raccolta meccanica in continuo, l'invito di Alessandro Tincani a non trascurare l'importanza della valorizzazione degli impianti esistenti e la visione del rilancio dell'olivicoltura nazionale di Vincenzo Nisio a partire anche da alcune esperienze in Campania.    


L’uso di piante di olivo di 2 anni per l’impianto e la combinazione di diversi trattamenti (irrigazione, fertirrigazione, biostimolanti) riduce significativamente il tempo per raggiungere la piena produzione di un uliveto intensivo: da 7/10 anni a 5/7 anni. Una risposta significativa a una delle principali criticità per l’olivicoltore che intende puntare sull’olivicoltura intensiva: il tempo necessario perché l’investimento dia i suoi frutti.
nativeolea2È uno dei risultati che sono stati presentati il 29 settembre a Firenze al convegno organizzato dall’Accademia dei Georgofili sul tema “Olivicoltura oggi e domani: tradizionale, intensiva, superintensiva. Opportunità e criticità a confronto nei vari contesti” (vedi). Risultato non ancora definitivo che è stato illustrato dal prof. Franco Famiani, docente di Arboricoltura generale e coltivazioni arboree all’Università di Perugia, nella sua relazione intitolata “Scelte e tecniche per massimizzare l’efficienza dei nuovi oliveti”. Un intervento nel corso del quale, trattando il capitolo del rinnovamento/ampliamento degli oliveti - che per Famiani vede in lizza tre modelli prevalenti: intensivo con 280-400 piante a ettaro, superintensivo più di 1500 piante/ha, intensivo ad alta densità 800/1200 piante/ha -, ha affrontato anche la principale problematica dell’olivicoltura superintensiva o ad alta densità: il fatto che per adesso le cultivar di olivo più adatte siano straniere, vale a dire le spagnole Arbequina e Arbosana e la greca Koroneiki. Ebbene dalle sperimentazioni in Italia illustrate da Famiani è emerso che le cultivar italiane che paiono migliori, secondo vari parametri, per l’olivicoltura superintensiva e intensiva ad alta densità sono il Leccio del Corno, il Maurino, il Piantone di Mogliano e la FS17, le quali comunque «sembrano soprattutto adatte a impianti ad alta densità». La relazione di Famiani si è conclusa con l’affermazione della prospettiva futura di un’olivicoltura italiana «definita al plurale», con diversi modelli olivicoli che devono coesistere tra loro, che darebbe «più flessibilità» al comparto. E con l’osservazione che attraverso pratiche agronomiche ad hoc, basate su ripensamento della potatura e sulla meccanizzazione, si possono ottenere recuperi di produzione altissimi anche negli oliveti tradizionali.
Ma sono stati tantissimi gli spunti venuti fuori durante il convegno, che è stato introdotto dal saluto in remoto del presidente del Collegio nazionale dei Periti agrari Mario Braga e moderato dalla consigliera dell’Accademia dei Georgofili Federica Rossi (Istituto per la Bioeconomia del CNR) e dal delegato del Collegio dei periti ai rapporti coi Georgofili, Lorenzo Venturini.
A cominciare dalla relazione introduttiva del prof. Riccardo Gucci, georgofilo, ordinario di Coltivazioni arboree dell’Università di Pisa e presidente dell’Accademia Nazionale dell’Olivo e dell’Olio, che ha inquadrato le problematiche dell’incontro. Gucci ha fra l'altro ricordato che la produzione di olio a livello mondiale negli ultimi 30 anni è raddoppiata perché altrettanto ha fatto il consumo di olio. Solo che l’Italia non ha saputo sfruttare questo trend di lungo termine, visto che negli ultimi anni è in una tendenza lievemente calante e difficilmente riesce a superare il livello di 350 mila tonnellate di olio di oliva annuali. Come fare per cambiare rotta e mettere meglio a frutto il quasi milione di ettari di oliveti che abbiamo? «Una delle cose da fare – ha detto Gucci – è aumentare la densità degli impianti». Bisogna passare da situazioni di 50/100 piante a ettaro a densità molto maggiori, anche se, come ha specificato, «densità di impianto non è sinonimo di intensificazione colturale», che dipende anche dalla forma di allevamento, dalla meccanizzazione e l’irrigazione ecc. Per Gucci negli oliveti tradizionali possiamo migliorare la situazione tramite rinfittimenti, irrigazione e sistemazioni agrarie, ma non è possibile rilanciare la produzione nazionale solo agendo sugli oliveti tradizionali: è necessario anche «pensare ad altri modelli e passare alla meccanizzazione della raccolta». Tra l’oliveto tradizionale e il superintensivo ci sono tante possibilità intermedie da valutare a seconda dei contesti che Gucci ha passato in rassegna: l’oliveto intensivo, che ha una densità tra 280 e 550 alberi ad ettaro, nessuna limitazione varietale, raccolta meccanica con vibro-scuotitori del tronco e buona produttività; l’oliveto intensivo ad alta densità, con 550/1000 alberi/ha, forme in parete, elevato investimento iniziale, raccolta meccanica laterale e alta produttività; l’oliveto superintensivo, con densità di oltre 1000 alberi a ettaro, limitazioni varietali e di pendenza del terreno, raccolta meccanica in continuo con scavallatrici, investimento elevato di durata inferiore, forme di allevamento a parete o siepe, elevata produttività. Gucci si è anche soffermato anche su altre esigenze dell’olivicoltura di oggi, oltre a quella della produttività, fra cui ad esempio la riduzione dell’impatto ambientale e la resistenza ai cambiamenti climatici e alle nuove emergenze fitosanitarie. Dopo aver riassunto le criticità e i punti di forza della nostra olivicoltura e aver evidenziato l’importanza, spesso trascurata, della qualità del suolo anche in questo comparto, ha concluso sostenendo che «bisogna produrre di più con meno» o «meglio con più conoscenza e consapevolezza» e che «nel rinnovo dell’olivicoltura è prioritario il mantenimento della identità e tipicità delle nostre produzioni, pur garantendo alle aziende di effettuare in piena libertà le proprie scelte» (vedi anche nostra intervista).
Aleandro Ottanelli, perito che opera presso l’Università di Firenze, nella sua relazione “Modelli colturali e adattabilità delle cultivar alla raccolta meccanica in continuo, esperienze in Toscana, ha esordito ricordando che la raccolta delle olive incide per il 52% nei costi di produzione dell’olivicoltura tradizionale delle colline fiorentine. Non solo, la raccolta incide anche nella qualità del prodotto finale, soprattutto con riferimento alla tempistica. Per questo la raccolta meccanica in continuo è da sempre una delle massime aspirazioni e sono stati fatti molti tentativi negli ultimi decenni anche in Toscana. Sono state fatte verifiche sull’adattabilità delle cultivar toscane al sistema di raccolta in continuo, ad esempio a Siena. Le cultivar toscane che hanno dato risultati migliori, in un oliveto da 1.094 piante a ettaro, sono state Maurino con quasi 70 quintali di olive a ettaro e Leccio del Corno con circa 60 quintali, dati inferiori agli oltre 80 quintali a ettaro di un impianto di Arbequina da 1600 piante/ha. Ulteriori sviluppi sono in corso di analisi in relazione a nuove macchine raccoglitrici e «probabilmente delle risposte arriveranno dal miglioramento genetico» delle cultivar, ha detto Ottanelli, che ha chiuso con un appello a insistere nella ricerca di nuove varietà di olivi italiane adatte alla raccolta meccanica in continuo.
“Sistemi di impianto, cultivar e macchine: interazione imprescindibile per il rilancio dell’olivicoltura” era il titolo dell’intervento del prof. Tiziano Caruso, ordinario di Coltivazioni arboree e docente di Olivicoltura presso l’Università di Palermo. Dopo aver sottolineato che, nonostante la sintonia fra gli studiosi di olivicoltura per molti aspetti, non mancano alcune piccole differenze legate alle caratteristiche dei territori e delle rispettive olivicolture, ha esordito dicendo che per sviluppare nuovi modelli d’impianto bisogna partire da un’analisi dei destinatari, cioè degli olivicoltori italiani. In Italia, ha ricordato Caruso, attualmente prevale la piccola proprietà (da 1 a 3 ettari) e c’è un’ampia base varietale («noi abbiamo certificato 199 varietà»), anche se il 70% dell’olio è circoscritto a circa 15 cultivar principali, mentre il restante 30% da circa 30 cultivar minori. Inoltre abbiamo 40 marchi di riconoscimento Ue: Dop/Igp/Biologico. L’attuale modello di riferimento di oliveto è rappresentato da impianti intensivi a bassa densità fino a 250 alberi/ha, con alberi di grandi dimensioni dalla chioma superiore a 100 mc. Su quali oliveti puntare per rilanciare l’olivicoltura italiana? Vie d’innovazione possibili che sta sperimentando da tempo in Sicilia puntano sull’alta densità (400/700 piante/ha, con altezza di 3,5 m e architettura della chioma 2D, cioè a parallelepipedo) e sull’altissima densità (700/1000 alberi/ha, con altezza di 3 m, architettura della chioma 2D) e sulla raccolta in continuo con macchine scavallatrici di nuova generazione che agiscono per bacchiatura/flagellazione della chioma su piante in 2D. Il punto è che all’aumentare della densità di piantagione si riduce il numero di cultivar adatte. Da varie sperimentazioni condotte in Sicilia, come illustrato da Caruso nel suo intervento, è emerso che la cultivar Calatina, una varietà minore di Caltagirone, è quella su cui puntare per impianti intensivi di tali generi nel territorio siciliano. Il prof. Caruso ha concluso con una slide sugli oliveti del futuro: dovranno essere basati su «cultivar deboli, a fruttificazione precoce, altamente produttive, con rami flessibili, procombenti» e dovranno essere gestiti «in sistemi di impianto intensivi a media/alta/altissima densità, pedonali e possibilmente a 2 dimensioni» (parallelepipedi). 
La relazione del perito agrario Alessandro Tincani, “Prospettive future: la valorizzazione degli impianti esistenti”, ha messo in discussione l’idea che la realizzazione di impianti ad alta densità sia la strada da privilegiare per il rilancio dell’olivicoltura italiana. A suo parere «i nostri territori non sono facilmente adattabili a certi impianti» e gli oliveti ad alta densità presentano diverse criticità: il numero limitato di varietà adattabili, la riduzione della biodiversità, la maggiore sensibilità ai ristagni idrici e alle gelate primaverili, i più elevati fabbisogni idrici e la maggiore suscettibilità ad alcune patologie (ad esempio la formazione di rogne), oltre alla sottrazione di terreni agricoli destinati ad altre coltivazioni. Tincani ha tra l’altro affermato che in Spagna solo l’1% dei terreni olivicoli hanno impianti da 2.000 e più piante/ha e solo il 4% superano le 1.000 piante/ha, quindi è ben lungi dal vero che lì prevalga l’alta densità. Per Tincani è dunque essenziale valorizzare gli impianti esistenti sia attraverso il recupero degli oliveti abbandonati sia attraverso una più corretta gestione agronomica che preveda: razionale potatura a intervalli regolari, corretta gestione del suolo, tecniche di microirrigazione localizzata e la meccanizzazione della raccolta. Per lui l’olivicoltura di domani si baserà su una coesistenza ed equilibrio fra alta densità e impianti classici.
Infine, dopo la relazione di Famiani già richiamata, è intervenuto in remoto, il perito agrario Vincenzo Nisio, sul tema “Esperienze su nuovi impianti e valorizzazione dei vecchi impianti olivicoli – Campania e non solo”. Nisio, dopo aver riferito la curiosità che la Puglia ha un patrimonio di circa 60 milioni di olivi cioè uno per ogni cittadino italiano, ha riassunto in queste cifre l’olivicoltura italiana: l’olivo è presente in 18 regioni d’Italia per un totale di 250 milioni di piante su una superficie di 1 milione di ettari. La produzione media di olio di oliva negli ultimi anni è stata di circa 300 mila tonnellate all’anno, con un export pari a 200 mila tonnellate e un consumo di 800 mila tonnellate. A caratterizzare la nostra olivicoltura, ha aggiunto, è la «presenza di impianti tradizionali, con elevata età delle piante, coltivazione prevalentemente in asciutto, scarsa meccanizzazione della raccolta», e quindi «costi di gestione elevati» e «impianti non più sostenibili economicamente». Come rilanciare la nostra olivicoltura? Innovazione del sistema produttivo, qualità del prodotto, promozione e comunicazione al consumatore, dice Nisio, che richiama le seguenti necessità agronomiche: «cultivar con breve periodo improduttivo, elevata e costante produttività, resistenza alle principali fitopatie, meccanizzazione integrale della raccolta, buone caratteristiche qualitative dei prodotti». Riguardo alle prospettive dell’impianto super intensivo, ha riferito un esempio di impianto intensivo di 3 ettari nella zona di Caserta con cultivar spagnole da 2 mila euro a ettaro di costo di produzione e 1,5 euro al kg di olio. Tuttavia la qualità non è eccelsa e queste varietà straniere potrebbero portare alla diminuzione della biodiversità italiana. Per Nisio in Italia dobbiamo puntare all’eccellenza. Abbiamo un patrimonio genetico di oltre 500 cultivar di olivo, dalle quali si potrebbero ricavare potenzialmente 500 extravergini diversi certificati. «Abbiamo la necessità di accrescere il valore aggiunto dei prodotti oleari di eccellenza che produciamo in Italia», dice Nisio, che conclude indicando comunque la possibile strada di «procedere a un processo di intensificazione dell’olivicoltura (intensivo) soprattutto nei distretti olivicoli che ricadono in aree fertili e irrigue e dove la giacitura permette la raccolta meccanizzata».

Lorenzo Sandiford