Ciccolella, l'impero dei vivai ha fatto crac. Così sono appassiti i re dei fiori.
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Quattro anni fa la loro impresa veniva selezionata per rilevare lo stabilimento Fiat di Termini Imerese e costruire serre fotovoltaiche. Ma quel colosso costruito anche grazie ad amicizie eccellenti, appoggi politici e soldi pubblici è a un passo dalla fine
Non fiori né opere di bene. Solo un miracolo potrebbe salvare i fratelli Ciccolella, re dei vivai, delle rose, degli anthurium e produttori di energie alternative.
Il crollo è stato tanto rapido quanto è stata lenta la costruzione dell’impresa pugliese che, solo quattro anni fa, era stata selezionata da Invitalia fra i candidati a rilevare lo stabilimento Fiat di Termini Imerese con l’obiettivo di riconvertire la catena di montaggio in serre fotovoltaiche. È stato il punto più alto di un’ascesa partita negli anni Sessanta, con il padre fondatore Paolo, passata per la quotazione in Borsa nel 2006 e per una campagna di acquisizioni in Olanda, patria del mercato florovivaistico.
Il 12 febbraio, la Ciccolella Spa è fallita per 700 mila euro su istanza dello studio Segre di Torino, che ha curato la quotazione in Borsa di Ciccolella nel 2006. Fino a giugno del 2014 lo studio Segre ha anche ospitato nella sua sede di via Valeggio le quattro società in cima alla catena di controllo chiamate Vincenzo, Corrado, Antonio e Francesco, come i quattro fratelli di Molfetta.
È stata l’ultima goccia in un vaso pieno di debiti. L’esposizione consolidata complessiva della holding non quotata (Gruppo Ciccolella Srl) è di 225 milioni di euro. La sezione fallimentare del tribunale di Trani ha trasmesso gli atti al sostituto procuratore Antonio Savasta, che aveva già in corso un’indagine sulle società del gruppo.
Quattro giorni dopo il fallimento, il 16 febbraio, la Consob ha comunicato la sospensione dalle contrattazioni della Ciccolella, per quel poco di flottante lasciato sul mercato dai due azionisti principali: il Gruppo Ciccolella (90 per cento) e la Bim (4,7 per cento), oggi controllata da Veneto Banca ma fondata dalla famiglia Segre.
Il fallimento non incide soltanto sulle aziende dei Ciccolella. Le banche, che si erano rassegnate all’ennesima ristrutturazione del debito e a un nuovo piano industriale firmato da Kpmg con traguardo 2017, sono costrette a tifare per il ricorso contro il provvedimento del tribunale, annunciato da Vincenzo Ciccolella. Il più anziano dei fratelli, nato nel 1953, ha sottolineato che il gruppo capitalizza 40 milioni di euro a Piazza Affari. Può darsi che abbia ragione. Il problema sta al gradino superiore, il Gruppo Ciccolella, di cui Vincenzo stesso è liquidatore dal marzo 2014. La controllante è stata cancellata nello scorso dicembre e il suo patrimonio è totalmente in mano agli istituti di credito.
Su 100 ettari di serre, il gioco delle garanzie ha consegnato i vivai e i terreni di Molfetta a Banca Apulia. Sugli impianti di Terlizzi, la cittadina del governatore Nichi Vendola, c’è la Bim con 22 milioni di euro di crediti. Unicredit ha le mani su Melfi e su Candela, che è l’investimento più recente e anche quello che andava meglio grazie all’accordo sulla cogenerazione con Edison. E poi c’è Banca Marche, che ha già iscritto a sofferenza i suoi 64 milioni di euro di finanziamento contro pegno sulle azioni della capogruppo non quotata.
La famiglia Ciccolella, che ha preferito non rispondere alle domande de “l’Espresso”, ha sempre scelto il basso profilo e la politica delle buone relazioni attraverso gli incarichi in consiglio di amministrazione o nel collegio sindacale. Nella governance dei florovivaisti sono apparsi Alberto Bombassei, patron della Brembo e numero due di Confindustria sconfitto da Giorgio Squinzi nella corsa alla presidenza del marzo 2012. L’industriale lombardo si è dimesso dal consiglio a maggio del 2011, due mesi dopo che Corrado Ciccolella era finito agli arresti per un’inchiesta sui contributi pubblici alla centrale a turbogas di Scandale, nel crotonese.
Un po’ più a lungo di Bombassei, fino al 2012, è rimasto Massimo Tezzon, direttore generale della Consob dal 1999 al 2008 e dall’anno successivo presidente del collegio sindacale di Ciccolella, oltre che sindaco della Sator di Matteo Arpe, della Banca Popolare dell’Etruria e dell’Atac durante la giunta di Gianni Alemanno. Un altro ex Consob ed ex Borsa italiana, Enrico Cervone, è stato prima sindaco e poi consigliere di Ciccolella Spa fino al 2013, quando è stato sostituito dal docente di diritto commerciale Gianvito Giannelli, curatore fallimentare del Bari Calcio ceduto all’ex arbitro Gianluca Paparesta.
A dispetto della storia di successo e dell’enfasi sulla buona imprenditoria privata del Sud, le imprese dei fratelli pugliesi non hanno mai disdegnato i rapporti con la politica, quando politica significava finanziamenti. I Ciccolella hanno ottenuto un primo contributo dal Cipe per 20 milioni nel 2004. Il sostegno, sollecitato dal ministro delle Attività Produttive Antonio Marzano, riguardava il contratto di programma dell’area di Melfi. Nel 2009, ancora con Silvio Berlusconi premier, sono arrivati altri 17 milioni per il contratto di programma di Candela, in provincia di Foggia. Claudio Scajola era il ministro dello sviluppo economico. Nello stesso periodo la Alibio, controllata dalla società Fratelli Ciccolella, ha ricevuto altri 15 milioni di euro di fondi pubblici per la centrale a turbogas di Scandale. Oltre all’arresto di Corrado Ciccolella e al fallimento di Alibio, l’avventura calabrese ha provocato, fra l’altro, un danno erariale quantificato dalla Guardia di Finanza in 13 milioni. Anche contro questa richiesta i Ciccolella hanno presentato ricorso.
La vera svolta verso il declino dell’epopea di rose e fiori risale all’inizio del 2013, dopo la rottura delle relazioni sindacali dovuta al mancato accordo su 242 licenziamenti negli impianti di Candela, Melfi e Terlizzi-Molfetta. A febbraio di due anni fa il tribunale di Amsterdam ha dichiarato il fallimento di Ciccolella holding international Bv, cassaforte della campagna acquisti estera condotta a ridosso della quotazione. Al momento di chiudere i battenti, la capogruppo olandese aveva 230 milioni di euro di ricavi, 30 milioni di debiti e 300 dipendenti, in seguito tutti licenziati. La svalutazione delle partecipazioni estere si è aggiunta alla crisi generale del mercato dei fiori, che ha portato i fratelli pugliesi a sospendere la produzione delle rose e a limitarsi agli anthurium.
In osservanza della legge di Murphy (“se qualcosa può andare male, andrà male”), il 2013 horribilis dei Ciccolella si è chiuso a dicembre con la sospensione delle ultime rate di contributi ministeriali per i contratti di programma di Candela e di Melfi. La decisione porta la firma dell’allora ministro dello sviluppo economico, Flavio Zanonato, e ha provocato l’ennesimo ricorso degli imprenditori, questa volta al Tar del Lazio, che ha girato la questione ai tribunali amministrativi di Puglia e Basilicata.
Alla fine del 2013, il grosso dei ricavi di Ciccolella era rappresentato dai 56 milioni di euro incassati per il contratto sull’energia con Edison e subito messi a disposizione del pool guidato da Unicredit, con cui in passato i Ciccolella sono stati in causa per i prodotti derivati. Dopo il fallimento della società quotata, la Procura di Trani sta passando al setaccio i finanziamenti pubblici legati ai contratti di programma.
Oltre a questi controlli, ci sarà un’analisi delle operazioni della holding (Gruppo Ciccolella) che, a detta dei magistrati, sono tutte da verificare.
Fonte l'Espresso
di Gianfrancesco Turano