Riccardo Gucci sulle prime sfide della nostra olivicoltura

Breve intervista a margine del convegno dei Georgofili sull’olivicoltura al prof. Riccardo Gucci, presidente dell’Accademia nazionale dell’olivo e dell’olio.

Molti esponenti di spicco nel panorama nazionale degli studi sull’olivicoltura all’incontro del 29 settembre scorso organizzato dall’Accademia dei Georgofili e dal Collegio nazionale dei periti agrari sul tema “Olivicoltura oggi e domani: tradizionale, intensiva, superintensiva. Opportunità e criticità a confronto nei vari contesti” (vedi). Fra questi il prof. Riccardo Gucci, georgofilo, ordinario di Coltivazioni arboree dell’Università di Pisa e presidente dell’Accademia Nazionale dell’Olivo e dell’Olio. Lo abbiamo intervistato al volo, subito dopo il termine del convegno.
Un bilancio dell’incontro, professore?
«Il tema era sicuramente di interesse. Gli interventi con gli specifici ambiti di approfondimento sugli aspetti della ricerca, sugli aspetti della professione, mi sembra che siano venuti fuori. Le domande di tanti partecipanti a distanza e anche la buona presenza in sala ci sono state. Io penso che sull’olivicoltura ci sia molto interesse, e anche molte prospettive, nonostante che la situazione che si è vista non sia rose e fiori, anzi».
Secondo lei quali sono, se sono emerse, le divergenze maggiori fra gli studiosi ed esperti sulle prospettive dell’olivicoltura italiana, al di là del consenso su un approccio pluralistico e teso a migliorare la produzione?
«Io vedo che rispetto al passato c’è una forte convergenza di opinioni. Questo non vuol dire che tutti diciamo le stesse cose. Ma il motivo è intrinseco nel sistema colturale. Cioè quando diciamo che se guardiamo a livello provinciale, regionale, nazionale, dobbiamo cercare di valorizzare le nostre varietà è guardando non di qui ai prossimi tre anni, ma fra 10/15 anni: il nostro olio così apprezzato lo vogliamo livellare su un paio di varietà coltivate in tutto il mondo? Chiunque capisca un po’ di marketing del prodotto dice: state attenti, voi avete un prodotto che è molto apprezzato e che spunta dei prezzi migliori, se vi livellate in basso i rischi sono grossi. Allo stesso tempo però, questo discorso qui non vuol dire precludere a un’azienda che magari vede le condizioni opportune anche con la varietà straniera di raggiungere i suoi obiettivi di mercato: non è né illegale, né immorale, non dobbiamo avere pregiudizi. La politica aziendale può essere tale da giustificarlo pienamente. So di iniziative per esempio di gruppi grossi che puntando sulle varietà straniere col superintensivo, vogliono produrre oli di buona qualità in Italia biologici a prezzi contenuti, cioè da essere disponibili per dei consumatori…»
…dove?
«Ci sono in Toscana, nel Lazio, in Umbria, ce ne sono tante. E io questo lo condivido, perché l’idea che noi dobbiamo fare un prodotto di eccellenza e di nicchia, che anche in Italia solo il 10% della popolazione può permettersi, secondo me non è l’idea giusta. Noi il buon prodotto alimentare dobbiamo cercare di produrlo e renderlo accessibile alla più ampia fetta di popolazione e quindi il prezzo non può essere fuori della portata della gran parte delle famiglie».
Ma a livello di politiche, ferma restando la libertà imprenditoriale, è importante continuare nella ricerca di cultivar, e alcune sono già emerse, adatte anche al superintensivo italiano? È meglio questo, se possibile?
«Fare nuovi impianti è obbligatorio se vogliamo rilanciare la produzione. Non è detto che li dobbiamo fare tutti con il superintensivo. Già oggi con 500 o 400 piante possiamo raggiungere degli ottimi obiettivi produttivi, fare tutta la qualità che vogliamo, usare qualsiasi varietà ci piaccia. E lo dobbiamo fare perché con i vecchi tradizionali non riusciremo. Poi teniamo conto che questi nuovi oliveti fra 30 anni saranno ancora in piedi, produttivi, ma con tutt’altra capacità produttiva, migliore situazione fitosanitaria. Cioè non sempre l’albero secolare è il meglio che ci possa essere, anzi molto spesso, come tutte le cose molto vecchie, ha subito le ingiurie degli anni».
Mi pare di aver notato qualche lieve differenza fra gli studiosi intervenuti nel modo di demarcare i confini fra intensivo, superintensivo ecc.?
«Allora, c’è un po’ di confusione nella terminologia, ma quella è la cosa meno importante. Cioè non è importante se le brave persone di buona volontà si chiamano in un certo modo o nell’altro, l’importante è che vi siano [sorridendo, ndr]. Come li chiamiamo non ha importanza…»
… quindi perdonerete anche noi giornalisti se sbagliamo (sorridendo, ndr)?
«Ma noi vi perdoniamo sempre quando siete in buona fede (ancora sorridendo, ndr)».
Il suo messaggio mi pare orientato a più quantità di oli di qualità: perché ci vogliono oli certificati?
«La parola d’ordine oggi è rilanciare la produzione. Senza la produzione io posso fare in qualsiasi settore il miglior prodotto del mondo, la convinco, tutti lo chiedono e poi se non ce l’ho in quantità soddisfacente? L’Italia ha il problema oggi che non ha olio. Se parla con i responsabili dell’Igp toscano…»
La prima cosa è la quantità allora?
«No, nel momento storico attuale dobbiamo rilanciare la produzione. È possibile che l’Igp toscano abbia il mercato, abbia gli acquirenti e non abbia abbastanza prodotto per venderlo? Questa è la stortura oggi, ma non vuol dire che dobbiamo rinunciare alla qualità».
Ma lei punterebbe più su questo olio certificato?
«In questo momento dobbiamo fare gli uliveti».
È secondario se si fa Igp ecc.?
«No, no, è importante fare uliveti che possono alimentare la filiera italiana con la loro produttività. Se decidiamo oggi, fra 5/10 anni cominciamo a vedere i frutti. Se continuiamo a non farli, poi è inutile che ci lamentiamo se fra 10 anni invece di essere terzi o quarti saremo settimi o ottavi».
Ma è meglio puntare su quelli che mi consentono di avere un Igp o un Dop oppure no, per una regione come la Toscana?
«Io penso di sì, per le regioni i cui marchi sono bene affermati, sì».
Il motivo è perché ci sono parti del mondo dove anche se noi meccanizzeremo e abbatteremo i costi comunque avranno costi minori dei nostri?
«Sì, ma noi dobbiamo meccanizzare in ogni caso, perché in campo lei non la trova più la gente, anche se è disposta a pagare, questa è la realtà. Trova magari persone di passaggio che fanno questo lavoro temporaneamente e che magari le dicono che vengono domani da lei, lei li aspetta e non si presentano».

Lorenzo Sandiford