L’olivicoltura italiana e la ricerca della produttività

Al convegno “Coltivare l’olivo” del 23 marzo di Confagricoltura Siena le ricette del prof. Riccardo Gucci per rilanciare l’olivicoltura italiana alzando i livelli produttivi: «rinnovo degli oliveti in aree potenzialmente competitive» (il 37% degli ettari olivati) con impianti a maggiore densità, olivi dalle chiome libere e voluminose, più superfici esposte, raccolta meccanizzata e irrigazione; politiche che puntino sulle varietà autoctone (più di 600), ma senza veti alle aziende che scelgano super intensivo con varietà spagnole. L’Associazione produttori olivicoli toscani ha fatto sapere che Co.Agri è in cerca di olivicoltori che conferiscano quote dell’olio prodotto da commercializzare.

 
«Le condizioni che si possono trovare a livello aziendale danno veramente una casistica infinita, per cui io non escludo che ci possano essere margini ed interesse per singole aziende dove metteranno varietà spagnole e non vedo che cosa ci sia di male. Diversamente auspico che a livello territoriale, quindi parlo di Regioni, di comprensori, di Italia, manteniamo una connotazione identitaria con le nostre varietà, perché noi ne abbiamo più di 600. Quindi, se si lavora, poi usciranno anche quelle che consentono di utilizzare uliveti molto fitti». Ad esempio il prof. Tiziano Caruso, docente del Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali dell’Università di Palermo, ha guidato «un lavoro sulle collezioni di germoplasma presso dei campi regionali, dove hanno, credo, un 40/50 varietà siciliane, e tra quelle hanno individuato due o tre genotipi che presentano caratteristiche di produttività, e anche molto interessanti dal punto di vista della qualità dell’olio, che si adattano all’altissima densità».
E’ quanto risposto da Riccardo Gucci, professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e agro-ambientali dell’Università di Pisa, ad una domanda postagli da Floraviva per chiarire la sua posizione riguardo alle piante da utilizzare per rinnovare gli oliveti italiani, al termine del convegno “Coltivare l’olivo”, tenutosi il 23 marzo al Santa Chiara Lab dell’Università di Siena. Un incontro organizzato dall’Unione provinciale agricoltori (Upa) di Siena (Confagricoltura) in collaborazione con il Santa Chiara Lab e l’Associazione produttori olivicoli toscani (Apot), a cui sono intervenuti anche il prof. di Bruno Bagnoli, docente di Entomologia applicata ai prodotti agroalimentari e alla viticoltura del Dipartimento per l’innovazione nei sistemi biologici agroalimentari e forestali dell’Università della Tuscia di Viterbo, con una relazione intitolata “Principali avversità biotiche dell’olivo e strategie di controllo ecosostenibile”, il presidente della Sezione nazionale olivicola di Confagricoltura Pantaleo Greco e il vice presidente dell’Apot Orlando Pazzagli.
Tutto l’intervento di Riccardo Gucci, che non si è limitato al tema “Evoluzione dei modelli di impianto e nella gestione degli oliveti” ma ha esaminato la situazione generale, ha perorato la causa del rinnovamento di una parte almeno degli uliveti tradizionali. «Le esigenze di un’olivicoltura moderna – ha spiegato – sono le seguenti: a) ridurre i costi di produzione, b) aumentare la produzione, c) migliorare la qualità dell’olio, d) ridurre l’impatto ambientale, e) dare valore al prodotto». Che cosa si è fatto in Italia e in Toscana negli ultimi 20 anni da questo punto di vista? Sul punto c), cioè la qualità dell’olio, qualcosa si è fatto e non solo in Toscana, nella quale non siamo messi male neanche sul punto e) del dare valore al prodotto. Ma del punto b), aumentare la produzione, «ce ne siamo dimenticati». 
Ed è un peccato. Infatti «l’Italia è il 2° produttore al mondo, e non c’è possibilità di recuperare sulla Spagna», ma si stanno pericolosamente avvicinando a noi anche altri Paesi, ad esempio del Nord Africa. Con il rischio di perdere quella leadership che abbiamo anche grazie all’importante industria della trasformazione. Alcuni dati presentati nelle slide di Gucci riassumono bene questa incapacità dell’olivicoltura italiana di affrontare la sfida della produzione. Infatti la media della produzione di olio nel decennio 1989-1999 è stata in Italia di oltre 540 mila tonnellate di olio d’oliva, ma nel decennio successivo è calata a 476 mila tonnellate (-12%); e nel periodo tra il 2013 e il 2017 è stata ancora più bassa: 376 mila tonnellate. In Toscana il calo è stato ancora peggiore: da una media di 19 mila tonnellate nel decennio 1989-1999 si è passati a una media di poco superiore a 14 mila e 500 tonnellate (-24%). Questi dati in un contesto in cui nel mondo, parallelamente, la produzione è salita del 38% (e il consumo del 42%). E per quanto riguarda le superfici degli uliveti, la situazione adesso in Italia è che abbiamo 1 milione e 130 mila ettari di superfici olivate e 160 milioni di alberi, di cui il 67% in collina e di cui solo il 37% potenzialmente competitivi (con il restante 63% marginale). Mentre in Toscana gli ettari olivati sono 95 mila e gli alberi 15 milioni. 
Come mai tale calo produttivo mentre nel mondo la produzione cresceva? Il problema principale dell’olivicoltura italiana, ha spiegato Gucci, è che produciamo con impianti obsoleti, cosa che non succede ad esempio in viticoltura o frutticoltura. L’uliveto tradizionale è ancora la tipologia prevalente in Italia e Toscana, anche se ha iniziato a diffondersi un «processo di intensificazione colturale». I nostri oliveti tradizionali sono caratterizzati, fra l’altro, da bassa densità, alberi vecchi, scarsa meccanizzazione. Il che significa bassa produttività (la media è di 1 kg/ 1,2 kg d’olio a pianta), alti costi e anche più problemi fitosanitari. Ma non siamo costretti a restare legati a quel modello tradizionale di uliveto, ha sostenuto Gucci: esistono «soluzioni alternative». Ad esempio oliveti ad alta densità o intensivi, che sono caratterizzati da 350/600 piante a ettaro (secondo alcuni anche 700/800), contro le 150 o poco più degli uliveti tradizionali. Oppure gli impianti ad altissima densità o super intensivi, con ben oltre 1000 piante ad ettaro. Questo aumento del numero delle piante ad ettaro consente di accrescere la produttività. 
Ma la produttività dipende in ultima analisi da «quanta superficie fogliare e gemme potenzialmente a fiore si mettono in un ettaro di uliveto». Quindi contano anche altri fattori, come le chiome degli olivi, che più sono lasciate libere e voluminose, con tecniche di potatura minima, più sono produttive (e diminuiscono anche i costi di potatura). Negli impianti moderni ad alta densità si può arrivare a volumi di chiome e a superfici fogliari esposte ad ettaro molto maggiori che negli uliveti tradizionali. Altri incrementi di produttività sono legati all’utilizzo di metodi meccanici per la raccolta delle olive, che è la principale voce di costo. Ed essi presuppongono altezze di alberi inferiori a certi tetti (4/5 metri). Inoltre molto importante per la produttività è anche l’irrigazione, che serve ad aumentare la produzione, specialmente in zone siccitose, ma può incidere anche sui parametri qualitativi dell’olio prodotto, ad esempio sulla concentrazione dei fenoli. Tutti aspetti e fattori aggiuntivi di produttività su cui la relazione si è soffermata.
«Non in tutto il milione e 130 mila ettari di superfici olivate si può fare l’intensivo o il super intensivo», ha poi precisato Gucci, «ad esempio in Toscana circa un 30% dell’olivicoltura tradizionale potrebbe essere modernizzata, cioè ha le condizioni strutturali per farlo». Ma la sua tesi è che «nelle aree potenzialmente competitive» (stimate a livello nazionale a circa il 37% delle superfici olivate totali) il rinnovo degli oliveti vada fatto. Non si può continuare a produrre su impianti obsoleti. Anche perché, sostiene, il problema della necessità di tutelare il paesaggio olivicolo di alto pregio è sovrastimato: molti degli uliveti che si vogliono preservare «hanno solo 70/80 anni e non sono quindi secolari». Certo ci sono anche casi dal grande valore storico, come certi oliveti nei monti pisani «risalenti all’epoca delle repubbliche marinare», ed esistono zone come la Liguria dove gli uliveti sono tutti giocoforza su terrazzamenti e l’unica cosa che si può fare è «ristrutturare i boschi di olivi non più gestiti», anche per impedire le frane. Ma in generale c’è ampio spazio per rinnovare gli uliveti italiani in modo da renderli più produttivi. Il risultato auspicato da Gucci è una coesistenza di oliveti tradizionali e moderni a seconda dei contesti.
Nel suo breve intervento, il vice presidente di Apot Orlando Pazzagli ha fatto sapere che la società Co.Agri, creata insieme alla cooperativa Terre dell’Etruria allo scopo di favorire la commercializzare dell’olio, è a disposizione di quei produttori di olio che vogliano conferire loro anche solo quote eccedenti della loro produzione, anche se i prezzi sono un po’ inferiori a quelli che forse si riescono a spuntare a Firenze e Siena. «Quest’anno stiamo liquidando a 8 euro – ha aggiunto – ma per quella quota di prodotto in eccedenza che l’anno successivo non ha valore può essere uno sbocco» interessante. «Naturalmente – ha precisato – a dicembre-gennaio gran parte dei giochi per la commercializzazione sono fatti» e comunque non si può aspettare maggio per conferire. 
 
Lorenzo Sandiford