Greco (Confagricoltura): su impianti e cultivar libertà agli olivicoltori

Intervista sull’olivicoltura italiana a Pantaleo Greco, presidente della sezione olivicola nazionale di Confagricoltura: gli olivicoltori dovrebbero essere liberi di scegliere fra impianti intensivi, super intensivi o tradizionali, e fra cultivar autoctone o no, ma «purtroppo» la normativa italiana non lo consente; gli alberi di interesse paesaggistico devono essere a carico della comunità, non dell'agricoltore; le varietà italiane Leccino e FS 17 (Favolosa) sono resistenti alla Xylella (che a Lecce ha causato un calo produttivo del 50%) e «possono avere una marcia in più se coniugabili con sistemi colturali interessanti» (la «più vicina a questo equilibrio è la Favolosa»); «è quasi la norma» che i premi internazionali non vengano vinti da oli italiani.


C’era anche Pantaleo Greco, il presidente della sezione olivicola nazionale di Confagricoltura proveniente dalla Puglia, fra i relatori del convegno del 23 marzo sul tema “Coltivare l’olivo” organizzato dall’Unione provinciale agricoltori (Confagricoltura) di Siena in collaborazione con il Santa Chiara Lab dell’ateneo senese e l’Associazione produttori olivicoli toscani (vedi nostro servizio). Floraviva ha colto l’occasione per intervistarlo a tutto campo su alcuni temi caldi dell’olivicoltura italiana e per capire meglio la direzione delle politiche olivicole di Confagricoltura.
Nel suo intervento ha riportato alcuni dati che dimostrano con chiarezza un fenomeno ben conosciuto: poca produzione rispetto alle necessità. Mi può riassumere la situazione?
«Come dicevo prima, c’è una carenza strutturale del sistema olivicolo italiano. Siamo passati nel giro di 15 anni dalle 800 mila tonnellate dichiarate dai registri Agea all’ultima campagna in corso che si dovrebbe chiudere intorno alle 300/350 mila tonnellate…»
…solo olio d’oliva extravergine o tutto l’olio d’oliva?
«Questo è un dato che si riferisce all’intera produzione. L’industria olearia italiana ha un fabbisogno di circa 800 mila tonnellate; quindi, anche considerando un margine di errore per questi grandi numeri, il sistema olivicolo italiano non è in grado di soddisfare il sistema industriale italiano. A quei numeri a cui facevo riferimento prima bisogna inoltre detrarre una quota consistente per l’autoproduzione, che non è disponibile per l’industria olearia, e un’altra parte che è lampante, che va all’industria della raffineria per poi essere usata per sottoli».
Rispetto agli anni scorsi come è andata?
«L’anno scorso stavamo intorno alle 150/180 mila tonnellate».
Ed era peggio dell’anno precedente?
«Sì. Questo è un quadro a cui è facile dare una motivazione, perché il sistema olivicolo italiano in questi ultimi 40 anni non si è rinnovato. In Spagna sono stati fatti più piani olivicoli che hanno permesso di ristrutturare gli impianti, di renderli più produttivi e di rendere anche più economicamente sostenibile la gestione di un sistema colturale arboreo che è di per sé complesso, nonostante la Spagna abbia delle peculiarità che la penalizzano, come una certa scarsa disponibilità della risorsa irrigua. Ma la Spagna in questi anni ha avuto il coraggio di investire, di rinnovarsi, di non tutelare in maniera ideologica e demagogica l’albero di olivo. Perché un albero di olivo è un albero da frutto, che quindi come gli altri alberi da frutto deve essere considerato nella sua vitalità, nella sua vita economica, che ha un certo ciclo. E se ci sono degli alberi di un particolare interesse storico e paesaggistico devono essere tutelati per un costo della comunità ma non del singolo agricoltore».
Ecco, a livello di politiche olivicole in positivo a che cosa mirate? Intensivo o super intensivo oppure optate per un pluralismo di scelte? Insomma qual è la vostra politica olivicola?
«La nostra politica si può riassumere in una frase: l’imprenditore agricolo deve essere libero di scegliere. Quindi la libertà di scelta lo può portare al sistema intensivo, al sistema super intensivo o anche alla conservazione dell’oliveto tradizionale. La cosa importante è che deve essere libero di scegliere. Ad oggi purtroppo la normativa italiana non consente queste libertà di scelta. C’è una legge del 1951, la n. 144, che vieta l’estirpazione della piante di olivo [con qualche eccezione, ndr], legge che aveva un senso sessant’anni fa e che adesso ha perso il suo senso».
E riguardo alle varietà di piante da utilizzare per chi vuole infittire gli uliveti o fare nuovi impianti? Qual è la vostra posizione: solo italiane oppure no?
«Sulle varietà di piante sono aperto come lo sono per il sistema colturale. Ma faccio un esempio per spiegarmi: la provincia di Bari è la provincia a maggiore superficie cerasicola d’Italia, dove la cultivar importante è la [ciliegia] Ferrovia. La cultivar Ferrovia non è una cultivar italiana, ma tedesca. Quindi c’è la storia della cerasicoltura italiana [coltivazione di ciliegie, ndr] che in realtà si poggia non su una cultivar autoctona italiana, ma su una cultivar tedesca. Quindi ben venga la selezione di ecotipi autoctoni, però non dobbiamo nemmeno essere culturalmente non aperti a selezionare degli ecotipi solo perché sono stati sviluppati in un vivaio spagnolo o cileno. Ormai il mondo non ha confini…»
…non pensa quindi che possa essere un volano dal punto di vista del marketing puntare sulle cultivar italiane?
«Sì, sì, sicuramente. Però nell’esempio che facevo prima il volano ha fatto girare tanto velocemente che adesso la Ferrovia è considerata una cultivar italiana, ma italiana non è».
Passando ai campi varietali della Provincia di Lecce di cui ha parlato, di che si tratta?
«Come ben si sa, dal 2013 abbiamo la presenza, per la prima volta in Europa, del batterio Xylella fastidiosa, e proprio per andare incontro alle esigenze degli olivicoltori sono stati realizzati dei campi varietali dove sono sotto osservazione circa 300 cultivar provenienti da tutto il mondo per valutare la tolleranza alla Xylella. Perché la tolleranza alla Xylella da ora ai prossimi anni sarà la vera discriminante della scelta colturale. In base alle linee di mesoclima, cioè agli andamenti climatici di tutte le zone del bacino del Mediterraneo, si sa con un buon grado di certezza dove il batterio arriverà e dove non arriverà. E’ auspicabile che già da adesso si inizi a fare una politica di scelta varietale oculata e indirizzata in questo senso».
Quindi in questi campi fate solo monitoraggio. Sta emergendo già qualcosa di interessante?
«Ci sono due lavori scientifici pubblicati che indicano il Leccino e l’FS 17, la Favolosa, come varietà resistenti alla Xylella…»
…queste sono italiane, vero?
«Sì, sono italiane».
Ci sono anche varietà spagnole resistenti?
«No».
Quindi da questo punto di vista le cultivar italiane possono avere una marcia in più?
«Possono avere una marcia in più se sono coniugabili con dei sistemi colturali interessanti. Ad oggi la varietà più vicina a dare questo equilibrio è la Favolosa».
Un’altra sua osservazione che mi ha colpito è quando ha detto che gli oli d’oliva italiani non sono i migliori e che ai premi internazionali a vincere a volte sono oli stranieri. Conferma?
«Assolutamente. Non è “a volte” che li vincono gli oli non italiani, è quasi la norma che i premi internazionali non vengano vinti da aziende italiane. Perché esistono tante varietà, che hanno tante peculiarità, e l’importante è che siano raccolte, lavorate e conservate bene. Poi, sa, il panel disegna il profilo organolettico di un olio con prevalenza di pomodoro, carciofo, mandorle ecc.: tutte queste caratteristiche che lo delineano. Però l’importante è che sia un olio lavorato ed estratto bene. Poi sulle varietà io, ripeto, non ho preconcetti di fondo. L’olio migliore è quello buono che costa meno».
Quanto ha inciso la Xylella sui cali produttivi degli ultimi anni in Puglia? E’ stata fatta una valutazione precisa?
«Guardi, la provincia di Lecce produce quanto l’intera Regione Toscana, come dati. Siamo intorno al 10% della produzione nazionale. In provincia di Lecce c’è stato un calo del 50%».
Da quando è iniziata la Xylella a ora?
«In tre anni, sì».

Lorenzo Sandiford