Cno: più risorse e nuovi oliveti per fermare il tracollo produttivo dell’olio italiano

Nella campagna 2016-17 la produzione italiana di extravergine d’oliva è stata superata pure da quella greca, scendendo al 3° posto europeo. In 6 anni -31% e in 25 anni siamo l’unico degli otto maggiori Paesi produttori a calare (-17%). Il presidente del Consorzio nazionale degli olivicoltori Sicolo: necessari 150 milioni di nuovi olivi in produzione con il modello intensivo e la dotazione finanziaria per l’ocm olio va triplicata portandola al livello di quella per il vino (oltre i 300 milioni di euro triennali).  

sicolo, cno, olivicoltura, floraviva«Chiediamo lo stesso trattamento della viticoltura, perché qui, se non ci sono interventi finanziari, non si va da nessuna parte. Quindi interventi come per l’ocm (organizzazione comune di mercato, ndr) vino anche per l’ocm olio, perché sul vino ogni tre anni ci sono investimenti di 340 milioni di euro, sull’olivicoltura in tre anni ci sono 100 milioni. Bisogna alzare la dotazione finanziaria, lavorare sulla promozione e anche a livello strutturale degli oliveti: fare sistemazione degli impianti già esistenti con rinfittimento e fare nuovi impianti intensivi per aumentare la produzione, con varietà autoctone perché dobbiamo mantenere la nostra specificità di qualità delle nostre varietà e non fare “oli Coca Cola” come fanno gli spagnoli».
E’ quanto dichiarato ieri sera dal presidente del Consorzio nazionale degli olivicoltori (Cno) Gennaro Sicolo subito dopo il termine dell’assemblea nazionale organizzata per fare il punto sul significativo calo di produzione di olio d’oliva extravergine che stiamo registrando, sia a breve che a lungo termine, in Italia e sulla corrispondente perdita di quote nelle esportazioni globali, in un contesto di forte crescita degli scambi mondiali di olio d’oliva (raddoppiati dal 2000 ad oggi). Un punto della situazione, insieme a esperti di settore come Maurizio Servili, Francesco Paolo Fanizzi e Simone Cagnetti (vedi nostra intervista) e ad esponenti di spicco del mondo agroalimentare e politico fra cui il presidente di Cia Dino Scanavino, l’assessore all’agricoltura regionale Marco Remaschi, il direttore generale di Legacoop agroalimentare Giuseppe Piscopo, il senatore Dario Stefano e il presidente del Consiglio regionale Eugenio Giani, sulla base del quale avanzare alcune proposte concrete dirette a invertire questo trend negativo di uno dei fiori all’occhiello, anche dal punto di vista simbolico e identitario, della nostra agricoltura.
«Anche il piano olivicolo è un fatto importante – ha aggiunto Gennaro Sicolo - però ha una dotazione finanziaria molto risicata. Sono appena 30 milioni di euro. Quindi 30 milioni, con gli istituti di ricerca e fare quello che serve per il monitoraggio e per dare indicazioni alle regioni su quali sono le varietà di impianti da fare, si consumano. Ma per gli investimenti strutturali delle imprese ci vuole ben altro. Quindi io dico: come l’ocm vino l’ocm olio, la stessa dotazione finanziaria per rafforzarci a livello strutturale. Poi fare passare anche il piano olivicolo nazionale. Ci vogliono finanziamenti adeguati per dare un sterzata importante sia a livello di quantità che di qualità. Perché, se si inverte la rotta sia sulla quantità che sulla qualità, i giovani verranno attratti anche da questa coltura, che adesso viene messa all’ultimo posto. C’è un mercato che ci dà possibilità di sbocco del prodotto, specialmente sui prodotti di qualità, e noi siamo presenti in Giappone, in Cina, in Germania, in America. Vogliono l’olio italiano perché ha proprietà salutistiche importanti. Però al tempo stesso bisogna modernizzare strutturalmente il settore».
Ma vediamo in sintesi i dati messi in evidenza da Cno, un consorzio che riunisce su tutto il territorio nazionale 24 organizzazioni di produttori di vario livello e a cui fanno riferimento 135 mila olivicoltori che gestiscono circa 140 mila ettari di oliveti. Come riassunto da Simone Cagnetti dopo l’incontro, «abbiamo visto che, in base ai dati pubblicati dalla Commissione europea su questa ultima campagna olearia (dall’ottobre 2016 al settembre 2017), passiamo al terzo posto fra i Paesi europei maggiori produttori di olio, perché veniamo superati dalla Grecia». I dati, non definitivi, dicono infatti che la Grecia ha prodotto 195 mila tonnellate, mentre l’Italia si è fermata a 183 mila, così adesso siamo al terzo posto, più che doppiati dagli spagnoli e dietro ai Greci. Passando ai trend, Cagnetti ha osservato che «rispetto agli ultimi sei anni delle campagne olivicole, dal punto di vista della variazione percentuale della produzione, siamo calati negli ultimi sei anni di circa 1/3 della produzione (-31%, unici a indietreggiare insieme alla Grecia, -22%, fra i primi sei Paesi produttori mediterranei, ndr) e negli ultimi 25 anni abbiamo avuto un calo di circa il 17% e tra gli otto market leader del mercato dell’olio a livello mondiale siamo stati gli unici a perdere un 17%, tutti gli altri hanno incrementato le produzioni». Lo scarso dinamismo produttivo italiano, come precisato nel comunicato di Cno, si è fatto sentire anche sull’export: dalla tradizionale posizione di maggiore esportatore di olio d’oliva extravergine a livello mondiale l’Italia è stata scalzata dalla Spagna, attuale leader con una quota del 54%. L’Italia dal 1990 al 2015 ha visto la quota di esportazione sul mercato globale scendere dal 46% al 36% e le tendenze evolutive delle performance di esportazione nelle ultime sei campagne vedono l’Italia sì crescente, ma a un ritmo molto più lento di Portogallo, Spagna, Grecia e persino dell’Unione europea nel suo complesso.
Alla base di questi cattivi risultati dell’olivicoltura italiana per il Cno ci sono tre principali ragioni: «il processo di abbandono della coltivazione, la frammentazione della struttura produttiva ed il mancato ammodernamento del settore». È necessario attuare il prima possibile dunque una riconversione, ristrutturazione e ammodernamento della olivicoltura italiana, «anche tramite un processo di razionalizzazione fondiaria – come ha detto Gennaro Sicolo -. Il settore olivicolo oleario italiano per tornare leader mondiale avrà bisogno di più di 150 milioni di nuovi olivi in produzione e almeno 25 mila nuovi addetti che riequilibrino il ricambio generazionale nei campi, ora fermo sotto il 3 per cento».
Durante l’assemblea è stato illustrato il modello di impianti olivicoli intensivi su cui Cno consiglia di investire (vedi nostra intervista) e gli intervenuti hanno avanzato idee e proposte per contribuire a rafforzare la produzione olivicola italiana, al momento insufficiente a soddisfare la domanda di olio extravergine crescente a livello mondiale. Tra queste, l’idea di Dino Scanavino, che ha fra le altre cose ricordato che il settore commerciale oleario italiano è molto efficiente e vale circa 3 volte la produzione d’olio italiana, di premiare con le bandiere verdi di Cia anche le aziende di ristorazione che introdurranno una carta degli oli d’oliva con relativi prezzi, allo scopo di trasformare la percezione dell’olio extravergine di oliva «da condimento a vero e proprio alimento». Più in generale Scanavino ha sostenuto che gli olivicoltori sono un esercito di piccoli soggetti che hanno bisogno di organizzarsi in sistemi, ad esempio quelli cooperativi, che funzionano bene anche con aziende piccole da 2 ettari, come dimostra il caso Melinda in Trentino. «Non è un invito a restare piccoli – ha precisato Scanavino -, ma finché ci sono i piccoli dobbiamo aiutarli a stare insieme».
L’assessore Marco Remaschi ha riconosciuto che i 32 milioni di euro del piano olivicolo nazionale rappresentano una cifra ancora troppo scarsa e ha ribadito che la parola d’ordine dell’olivicoltura in Toscana (che «ha il 40% dell’olio certificato nazionale» a fronte di una produzione totale «intorno al 3% della produzione nazionale») resta la qualità, ma ha sostenuto che «dobbiamo comunque creare le condizioni per una spinta agli investimenti in nuovi impianti», con grande attenzione in particolare per gli investimenti nei sistemi di irrigazione, altrimenti c’è il rischio che la siccità si porti via una bella fetta della produzione.  
Il senatore Dario Stefano, che è stato assessore all’agricoltura in Puglia e coordinatore della Commissione Politiche agricole della Conferenza Stato-Regioni, ha affermato: «abbiamo un imperativo categorico: dobbiamo produrre più olio d’oliva, altrimenti non avremo più peso in ambito internazionale». Anche Stefano, intervenuto prima di Scanavino, ha sostenuto la necessità per i produttori di olio italiano di farsi sentire con il sistema della ristorazione e anche con il sistema della formazione alberghiera, affinché si parli di più dei contenuti dietro alle etichette degli oli extravergini, di cui molti studenti non sanno quasi niente.
Giuseppe Piscopo, direttore di Legacoop agroalimentare, ha detto che il piano olivicolo nazionale, uscito poco più di un anno fa, fu salutato come positivo nonostante la scarsa dotazione finanziaria. Però nei primi bandi ci sono state note dolenti, a suo avviso, perché troppe piccole e medie imprese, fra cui cooperative, sono rimaste escluse per le condizioni di accesso previste dai bandi, che imponevano in un primo tempo l’appartenenza a op (organizzazioni di produttori) e in un secondo tempo a reti di impresa. «Confidiamo – ha detto – che il Ministero possa rimediare in futuro». Nel settore olivicolo-oleario, ha argomentato Piscopo, esiste un numero altissimo di op, ma questo non impedisce che sia uno dei comparti in cui il livello organizzativo è più carente. Quello che conta, per lui, è come si regolano e si usano certi strumenti organizzativi.
Fra gli interventi tecnici, quello di Francesco Paolo Fanizzi ha prima messo in chiaro che «allo stato attuale non sono previste a livello europeo metodologie di laboratorio in grado di garantire un controllo circa la veridicità dell’informazione sull’origine geografica riportata in etichetta» e che con i test odierni del dna da olio d’oliva si può risalire all’origine varietale ma non all’origine geografica dell’olio stesso. Tuttavia Fanizzi ha spiegato che per stabilire l’origine geografica dell’olio d’oliva si possono usare altre tecniche e ha illustrato i sistemi di banche dati di riferimento che sono stati creati a tal fine.
Mentre Maurizio Servili si è detto d’accordo sull’urgenza di ritornare a coltivare olivi per produrre più olio e anche sulla scelta di puntare sul modello intensivo (da 1,5 a 3 euro di costo produttivo al litro d’olio), invece che super intensivo (meno di 1 euro di costo), e con cultivar italiane. Il fatto è che non possiamo più produrre olio solo a 8 euro di costo: non possiamo più basarci solo su quel modello. Si tratta di fare le scelte giuste agronomiche, con cultivar adeguate e sistemi di irrigazioni ad hoc. Poi ha richiamato una serie di risultati scientifici e innovazioni della ricerca italiana sulle proprietà degli oli extravergini, in relazione non solo alle cultivar ma anche alle modalità di raccolta e conservazione delle olive e alla frangitura, puntualizzando però che non tutti gli oli italiani sono uguali e che bisogna incominciare a distinguere nella comunicazione un olio dall’altro: quelli davvero salubri da quelli che non lo sono. Infine ha ricordato l’importanza del packaging (vedi nostro articolo) e che non siamo all’anno zero nell’uso dei sottoprodotti dell’olivicoltura, che possono servire a generare reddito.
 
Lorenzo Sandiford