Dino Scanavino: ci vuole una Pac completamente nuova
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in Vis-à-vis
Intervista al presidente di Cia, a Firenze per l’assemblea regionale, che dice: non bastano piccole modifiche alla Pac e bisogna premiare «non le aziende efficienti, ma filiere efficienti». Dino Scanavino propone un piano straordinario di manutenzione ordinaria del territorio affidato agli agricoltori. L’abolizione dei voucher è «sciagurata» e nella legge sul caporalato, appoggiata da Cia, vanno corrette le norme che trasformano in reati penali dei banali illeciti amministrativi.
«Parto con una considerazione, che peraltro ha fatto l’Unione europea stessa, e cioè che la Pac sino ad oggi non ha assolto al ruolo che si era data, tant’è che le imprese più deboli sono diventate più deboli e quelle più forti si sono rafforzate e che l’80% delle risorse sono andate al 20% delle imprese, ancora una volta, anche dopo i correttivi che sono stati posti sull’agricoltore attivo e sulla black list ecc. ecc. Per cui il tema non è come noi modifichiamo questa Pac ma è la visione di una nuova Politica agricola comunitaria che deve lasciar indietro quasi tutto quello che è accaduto fino ad oggi, perché non ha riportato il risultato sperato».
Così Dino Scanavino, presidente nazionale di Cia – Agricoltori italiani, sentito al termine dell’assemblea di Cia Toscana tenutasi stamani a Firenze per presentare le proposte del livello regionale dell’associazione sullo sviluppo rurale e sulla Politica agricola comune (Pac) post 2020, in vista della partecipazione alla “Conferenza regionale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale” del 5 e 6 aprile prossimi a Lucca, nonché della conferenza economica “Agricoltura crea valore” che Cia nazionale organizza a Bologna dal 29 al 31 marzo prossimi.
«Lo sviluppo rurale – ha continuato Scanavino, sentito da Floraviva sugli argomenti toccati nel suo intervento - non vuol dire espellere dalle aree rurali le aziende più deboli, ma vuol dire rafforzarle perché rimangano in quel contesto. Allora la visione della politica deve portarci a considerare il sistema agricolo all’interno del contesto sociale più complessivo, cioè come settore di servizio alla qualità della vita dei cittadini nel loro complesso. Allora i cittadini pagheranno anche più volentieri le loro tasse per metterle a disposizione dell’agricoltura, non degli agricoltori».
Lei ha detto che non ci deve preoccupare più di tanto il livello del budget della Pac in sé, quanto ancor più che cosa ci si mette dentro in termini di aiuti, e che esso è il 38% del bilancio dell’Ue…
«E’ così, la politica agricola comunitaria assorbe il 38% del bilancio comunitario. Quindi è una cifra molto importante. Ma se questo 38%...»
E se diminuisse? Non è preoccupato?
«Mi preoccupa di più che l’80% delle risorse smetta di andare solo al 20% delle imprese, perché se il riequilibrio complessivo porta risorse ad agricoltori che ne hanno titolo e non hanno mai potuto averle, può darsi che il problema principale non sia nemmeno il livello del budget. Certo che il livello del budget è un problema, non voglio essere frainteso, ma non è un punto in più o un punto in meno, di fronte a un problema di questo tipo. Il problema grande è che il ruolo che la Pac doveva avere non l’ha avuto o non l’ha avuto sino in fondo».
Ha detto che volete che la Pac serva non ai possidenti di terre o latifondisti ma agli agricoltori, cosa significa questo in concreto?
«Intanto ci vuole un’attenzione alla gestione del territorio e al valore dell’agricoltura sul territorio e al ruolo che gli agricoltori svolgono per mantenere il sistema rurale in efficienza. Io credo che ci voglia un progetto straordinario di manutenzione ordinaria. Farebbe risparmiare risorse a valle, molte volte spese in opere di cemento armato che non servono a risolvere il problema. Bisogna partire dall’alto e incominciare a intervenire sui problemi scendendo man mano a valle. Gli agricoltori possono avere un ruolo positivo e anche quelle aziende che non sono in grado di produrre per il mercato avrebbero un impiego e una produzione di beni eco-ambiental-sociali di straordinario valore. E poi c’è il mercato, cioè noi dobbiamo aggregare le filiere, dobbiamo avere più cooperazione, più op, reti di impresa, mettere assieme il prodotto ma non per ammassare merci, ma come un progetto strategico, filiera per filiera, su come vogliamo affrontare il mercato, rifuggendo ogni autoreferenzialità e il pensiero che solo noi abbiamo la grande qualità, perché il mondo seleziona e non è detto che scelga noi. Dobbiamo farci scegliere, essere accattivanti. Dobbiamo pretendere regole chiare fitosanitarie alle frontiere, sapendo però che non è con quelle che noi fermeremo l’evoluzione del mercato, bisogna che la Pac incentivi filiere che si approvvigionino della materia prima sul territorio e abbiano dei progetti di penetrazione dei mercati lungimiranti».
Recentemente a un incontro organizzato a Firenze da Agrinsieme sulla cooperazione agroalimentare e le politiche a sostegno di essa, è stato chiesto che i finanziamenti all’agricoltura, fra cui quelli della Pac, vadano a imprese competitive, più grandi e strutturate, che li sanno mettere utilmente a frutto, e non ad esempio agli agricoltori hobbisti. Quale è la sua posizione, visto che in quella sede è stato chiesto ai produttori di far sentire la loro voce in seno al coordinamento di Agrinsieme?
«Io mi riferisco intanto agli agricoltori, perché tutte le aziende, cooperative o meno, sono costituite da agricoltori, non sono avulse dal contesto. Allora il reddito degli agricoltori che oggi conferiscono in cooperativa ahimè non è molto diverso da quello di coloro che vanno al mercato. Quindi il problema esiste di avere aziende più efficienti. Ma esiste per tutti: per le cooperative, per le aziende che hanno la filiera interna, per quelli che si relazionano con l’industria ecc. Non è molto diverso. Per cui io sono d’accordo a premiare filiere efficienti, non aziende efficienti. Le aziende efficienti non hanno bisogno di soldi pubblici, le filiere efficienti sì. Le aziende devono fare con quello che hanno, i soldi pubblici servono per il contesto non per rafforzare un’azienda, per rafforzare un tessuto produttivo che è fatto di aziende, che producono materia prima, che la trasformano e poi quelle che la vendono ecc. Questo è il nostro progetto, allora lì l’efficienza non è mai troppa. E la premialità all’efficienza è straordinariamente importante, con delle misurazioni ex post. Perché si premia il progetto e si verifica il risultato. Se il risultato non è venuto, quell’azienda deve modificarsi per poter avere anche un altro contributo».
Tutte le aziende, anche le piccole, quindi?
«Tutte, perché sono le filiere a dover essere sostenute…»
Ma non gli agricoltori hobbisti, immagino.
«Guardi, su questa questione la mia posizione è: dipende da dove sono gli hobbisti, perché se c’è una persona che lavora all’acciaieria di Piombino e la sera torna sulla montagna e accudisce quattro vacche e una piccola vigna o frutteto, secondo me ha titolo ad avere qualcosa anche lui, perché dà un contributo molto importante continuando a vivere in quel luogo non ammassandosi in una città e dando un contributo ambientale a quel luogo. Non escluderei una rivisitazione di questa categorizzazione che di fatto non ha portato nulla di produttivo. Tant’è che le società che non avevano gli agricoltori li hanno messi… il problema è che non si cambiano le dinamiche con dei piccoli aggiustamenti, ma con delle politiche strategiche e qui non vedo politiche strategiche».
Un commento sui problemi del lavoro in agricoltura?
«In Europa l’agricoltura conta 14 milioni di imprese agricole, occupa 30 milioni di persone e si occupa del 45% del suolo del continente. A noi i temi del lavoro interessano moltissimo. Quello che è accaduto con l’abolizione dei voucher per esempio noi l’abbiamo considerata un’azione sciagurata, in quanto, peraltro essendo degli utilizzatori marginali visto che l’agricoltura utilizzava i voucher per l’1,5% del totale, andavano a colmare una necessità straordinaria in alcuni concentrati momenti dell’anno. Questo è un problema, così come lo sono alcune norme inserite nella legge del caporalato, da noi approvata incondizionatamente, che oggi vanno corrette perché i parametri che trasformano da illecito amministrativo a reato penale una banalità come un agricoltore che non indossa adeguatamente gli strumenti anti-infortunistici o ha lavorato un’ora in più dell’orario del lavoro per tre giorni consecutivi ci sembra un’aberrazione del concetto anche di sussidiarietà tra datore di lavoro e lavoratore e la pubblica amministrazione che dovrebbe essere un po’ più fluido ed elastico».
E come vanno i dati dell’occupazione dell'agricoltura italiana?
«L’agricoltura è sempre stata anticiclica, quindi gli ultimi dati ci danno un’occupazione in aumento. Ovviamente un’occupazione che si stabilizza sempre in una funzione precaria perché l’agricoltura ha dei cicli meteorologici che non ti consentono di far lavorare le persone per dodici mesi, ma noi vediamo dal trend dei rinnovi contrattuali, pur a tempo determinato, che gli stessi lavoratori continuano ad essere assunti dalle stesse imprese. Quindi quando noi parliamo di lavoro atipico in agricoltura sbagliamo, perché è un lavoro fortemente tipico, che dovrebbe avere un contratto particolarmente ad hoc ed elastico, perché noi dobbiamo rispondere con l’elasticità a delle evenienze atmosferiche che non possiamo predeterminare».
Lorenzo Sandiford