Il business sporco dell'olio di palma
Le grandi aziende europee che impiegano l'olio di palma agitano la bandierina, ‘RSPO’, nel tentativo di addurre la sostenibilità di una minima parte di questa materia prima, utilizzata nelle industrie alimentari. Ma si tratta di una quantità minima rispetto ai volumi mondiali commercializzati raggiunti nell’ultimo decennio. Dietro a questo business colossale si nasconde la rapina delle terre e della sovranità alimentare per ampliare le aree coltivate a palma.
Il problema legato all'utilizzo dell'olio di palma viene dibattuto molto a livello internazionale dove le grandi aziende europee, che impiegano questa materia prima, agitano la bandierina, ‘RSPO’ (Roundtable for Sustainable Palm Oil production), nel tentativo di addurre la sostenibilità di una minima parte dell'olio di palma utilizzato nelle industrie alimentari. Tentativo che risulta però inutile perché tratta di una quantità minima rispetto ai volumi mondiali commercializzati raggiunti nell’ultimo decennio. Volumi che raggiungono livelli talmente alti da posizionare l'olio di palma al primo posto nella classifica dei grassi alimentari. Il business colossale, concentrato nelle mani di pochi, controlla lottizzazioni e coltivazioni dei terreni. E anche il commercio é appannaggio di una manciata di trader internazionali, da cui dipende il movimento di ogni commodity alimentare. Infatti le prime a beneficiare dell’utilizzo di questo grasso sono proprio le grandi multinazionali del cibo. Continua così la rapina delle terre e della sovranità alimentare per ampliare le aree coltivate a palma. Il "Roundtable for Sustainable Palm Oil production", RSPO, è un ente che tenta di coprire le ingiustizie e le azioni compiute a danno delle popolazioni locali e dell’ambiente. Negli ultimi mesi l'abbiamo conosciuto grazie alla pubblicazione di articoli a favore dell'olio di palma, anche su importanti testate come l'inglese "The Guardian". La rapina delle terre e della sovranità alimentare continua indisturbata: l'acquisizione di enormi appezzamenti di terreni, come se non vi abitassero persone, per ampliare le piantagioni avviene di solito attraverso milizie locali che provvedono allo sgombero. I "contractors" radono al suolo foreste, villaggi e cimiteri, deviano i corsi d’acqua per impiantare mono-colture intensive di palma da olio. Queste situazioni si ripresentano puntualmente in Birmania, nelle Filippine, in Indonesia, in Africa, in Honduras, in Perù e in Brasile. La strategia che tenta di salvare questa indiscriminata demolizione di foreste la giustifica con la creazione di un nuovo parco naturale in un'altra parte del mondo, ma questo ragionamento è antitetico al modello naturale di sviluppo a cui ogni persona interessata alla tutela ambientale dovrebbe ispirarsi. RSPO dimentica di dire a quanto ammonta la percentuale di palma certificato rispetto alla produzione globale: infatti, la percentuale di palma certificato rispetto alla produzione globale è del 17 % e, secondo il Guardian, solo la metà trova un acquirente finale. Tutto ciò succede anche se la domanda del grasso di palma è in aumento, perché trainata dalla produzione di bio-diesel, oltre che di detergenti, prodotti per la casa e cosmetici. Per questo motivo le aree coltivate sono destinate ad aumentare e a causare ulteriori danni, sociali e ambientali.
Redazione Floraviva